Nel 2002, per un programma di Rai Radio 3 (Cento Lire: erano dei podcast ante litteram), realizzai cinque puntate sugli OGM, il titolo era semplice: OGM tra paure e realtà.
Realizzai quel radio documentario perché dal 2001, col decreto voluto da Pecoraro Scanio (allora ministro dell’Agricoltura) era vietata la sperimentazione in campo delle piante OGM (ancora oggi, nonostante appelli di molti scienziati e ricercatori, il blocco persiste): un’assurdità! Dunque, pensai: qualcosa pur bisognava fare per spiegare di cosa parliamo quando parliamo di OGM.
Intervistai genetisti, intellettuali e ambientalisti, anche il responsabile di Greenpeace Italia e vabbè, le paure allora erano le stesse di oggi, e comunque cercai di spiegare al meglio cosa mai fossero gli OGM e perché, in base a quelle misure, a quali test, a quale processo epistemologico, potevamo garantire la salubrità di queste piante, ma soprattutto, raccontati perché gli Ogm fossero, allora come ora, convenienti e sostenibili: andavano solo testati in campo, ah e come mi sarebbe piaciuto che a farlo fosse la ricerca pubblica.
Il pubblico era quello di Rai Radio 3, e a giudicare dalla musica che ascoltava e che anche io ascolto, a giudicare dalla qualità di alcune trasmissioni letterarie e culturali, immaginavo fosse composto di radioascoltatori attenti e curiosi, aperti, progressisti, e forse lo erano ma di sicuro la loro curiosità non riguardava le biotecnologie: presi un sacco di insulti. Oggi si direbbe shitstorm. Insomma, mi contestarono in tanti: otto su dieci. Che strano – pensai- un prodotto innovativo e sostenibile come gli OGM era così mal visto proprio da coloro che, in altri campi, difendono le innovazioni.
Comunque, nel 2002, non ero il solo ad occuparmi della questione delle biotecnologie agrarie, anche se di sicuro ero il solo scrittore a farlo (ma vabbè lavoravo nel settore agricolo). C’erano molte persone che conducevano la battaglia però, come dire, eravamo tutti isolati. C’era Anna Meldolesi, autrice di un fondamentale libro sull’argomento, un’inchiesta molto innovativa, di stampo anglosassone (OGM storia di un dibattito truccato, Einaudi). C’era Roberto Defez del CNR di Napoli che si è dato tanto da fare, esponendosi sempre. Eddo Ruggini che aveva realizzato Kiwi e Olivi OGM (vandalizzati poi da alcuni gruppi ambientalisti), Bruno Mezzetti anche lui in prima linea, Gilberto Corbellini che scriveva di OGM sul Sole 24 ore e altrove, Giovanni Carrada, storico autore di Superquark, Chicco Testa che quando voleva fare arrabbiare qualcuno diceva sono nuclearista e appoggio pure gli Ogm.
E c’era Dario Bressanini che a partire dal 2007 ha cominciato a scrivere con grande chiarezza di OGM sul suo blog dell’Espresso, e con il quale ho condiviso le prime fasi di questa battaglia per convincere l’opinione pubblica della bontà delle piante migliorate.
C’erano altre persone (e tante ne sono arrivate, come Beatrice Mautino) ma in fondo eravamo isolati, non facevamo rete e quindi che soddisfazione vedere oggi, quasi ventitré anni dopo, le foto datate 13 maggio 2024 che ritraggono un po’ tutti, vecchi e nuovi divulgatori scienziati, genetisti (tranne io che non c’ero) intorno a Vittoria Brambilla e Fabio Fornara che finalmente possono seminare e sperimentare il riso modificato con le TEA e che promette di essere resistente al brusone, quindi meno chimica (senza la sperimentazione in campo non possiamo capire davvero se siamo o non siamo sulla giusta strada, in laboratorio e in vitro funziona tutto: è il campo che fa la differenza).
Ventitré anni per provare a sperimentare e quindi a verificare l’efficacia di nuove tecniche di miglioramento genetico, quelle rubricate sotto la voce TEA (Tecniche di evoluzione assistita, piante ottenuto grazie all’impiego della tecnica del CRISPR Cas 9, insomma, non OGM, anche se non c’è ancora una definizione legislativa), sulle quali c’è grande attesa e grandi speranze.
Ventitré anni in cui è cambiata l’informatica, gli smartphone, le macchine, la medicina, l’industria, ma l’immagine dell’agricoltura fatica ancora a cambiare, sempre di mulini bianchi parliamo.
Per fortuna che qualche passo avanti è stato fatto, e batti e ribatti qualche concetto più scientifico e meno fallace sta entrando nel dibattito pubblico.
A proposito, il dibattito pubblico sul cibo è ugualmente ossessivo, pieno di luoghi comuni e di sciocchezze ma anche qui, anno dopo anno, qualcosa si muove. Lo testimonia un bel libro scritto da Anna Prandoni, Il senso buono (Linkiesta Books) che riassume lo stato dell’arte del dibattitto sul cibo e sulla fabbrica del cibo, cioè l’agricoltura e con molto buon senso (e molto studio) prova non solo a far chiarezza (meno chef, più cuochi, più scienza meno supponenza) ma anche redigere un manifesto per gli anni a venire, indispensabile per orientarsi in questo mondo agricolo di cui tutti parlano ma che pochi davvero abitano e governano, nel senso che siamo più interessati a fare foto al piatto dello chef che a raccontare quante persone lavorano ogni giorno per fare arrivare i prodotti nella cucina: una quantità incredibile di cittadini, una rete di cui non parliamo mai, anche perché, faccio per dire, probabilmente l’ingegnere di bonifica che si occupa di fare arrivare l’acqua ai campi, con la sua cultura, non è ritenuto degno di racconto e soprattutto non è istagrammabile.
Oggi approfittando della suddetta novità, diamo un po’ la parola ad Anna Prandoni, riassumendo alcuni aspetti interessanti del suo lavoro, facciamo rete, insomma.