La polenta dolce è un piatto estremamente semplice e al contempo praticamente impossibile da cucinare bene. È pertanto una pietanza – che mi risulti l’unica al mondo – a violare il principio di non contraddizione. Inoltre, se esistesse un apposito registro per la tutela della biodiversità alimentare (magari esiste), la polenta dolce sarebbe da considerarsi pure una ricetta in via d’estinzione. Le pochissime donne ancora capaci di preparala (non si ha notizia di uomini ammessi al culto) dovrebbero essere ricercate dagli etno-antropologi e intervistate, filmate, preservate, monumentizzate.
A questo punto devo precisare che alcuni anni fa insieme a mia nonna se ne è andata senza dubbio una delle più maestose preparatrici di polenta dolce che l’umanità abbia conosciuto. Che poi, inutile girarci intorno: la polenta dolce è polenta di farina di castagne, nei ricettari si chiama proprio così, senza fantasia, né alone di mistero, né storytelling: polenta di farina di castagne. Il bisogno di chiamarla polenta dolce, rimuovendo ogni riferimento alla castagna, che è sostanzialmente l’unico vero ingrediente di cui è composta, è un modo furbo e commovente per rimuovere almeno lessicalmente un dato di fatto: la castagna è sinonimo di miseria, mentre la dolcezza evoca un’idea di benessere che certa campagna toscana – quella più dura e senza zucchero – non ha mai conosciuto davvero.
Fino a pochi anni fa mia nonna preparava spesso la polenta dolce a me, fratelli e cugini. Specialmente in autunno e in inverno. Tornavamo da scuola e lei sporzionava la polenta direttamente dal tagliere. Faceva scorrere un filo da cucito sotto a quel cupolotto marrone, poi tirava il filo in alto, una cesura netta, come una ghigliottina invertita. Disponeva qualche fetta morbida sui nostri piatti e mangiavamo la prima così, al naturale. Poi aggiungevamo un po’ di ricotta.
Poi iniziavamo a spalmarci sopra dosi generose di Nutella. Eravamo felici, non saprei più dire come. “Bella vita eh. Ai nostri tempi ci sarebbe piaciuto avere la Nutella”, commentava lei. “Se è per questo anche la ricotta, ci sarebbe piaciuta”, precisava mio nonno. Il valore inestimabile della polenta dolce l’ho compreso pienamente dopo la morte di mia nonna, quando ho realizzato che nessuno di mia conoscenza era in grado di prepararla. Farina di castagne, acqua, un pizzico di sale. Basta. Eppure: o troppo liquida, o troppo grumosa. Chi giurava di essere capace non si è mai dimostrato all’altezza, o ha rinunciato prima di cimentarsi adducendo vaghe scuse per evitare la sconfitta (“la farina di castagne non si trova più”). Forse la capacità di preparare la polenta dolce è inversamente proporzionale alla povertà che si è avuto: meno si ha, più viene buona. È un falso segreto, questo qua, che però fa sorgere un’assurda malinconia per le cose perdute. Anche se a pensarci bene – chissà, avrei dovuto chiedere a mia nonna – magari la nostalgia in questi casi è un sentimento improprio, quasi un peccato.