“In linea di massima, è possibile fare una discreta pasta con un grano poco proteico, a maggior ragione adesso che le varietà di frumento hanno una elevata tenacità del glutine”. In parole povere, la tenacità del glutine è il carattere che fa mantenere la cottura o, se preferite, che fa scuocere difficilmente la pasta. Poco glutine molto tenace può mantenere la cottura come molto glutine poco tenace. E il glutine, negli sfarinati, è la quasi totalità delle proteine. Quindi è possibilissimo fare pasta con frumento poco proteico, anche buona pasta. Ma un conto è fare un piccolo lotto di pasta, magari spendendo non poche energie per mettere a punto la metodica di pastificazione e un altro conto (ben diverso), è impiantare un sistema di produzione industriale, quindi in vasta scala, il quale è stato standardizzato (per ragioni che non serve spiegare) e che si fonda, per la sua buona riuscita, su caratteristiche ben precise della semola, tra cui appunto il tenore proteico.
In primis il problema della metodologia, che per una grossa azienda spesso richiede diversi anni per esser messa a punto. L’industria che volesse cambiare la propria strategia di pastificazione dovrebbe quindi mettere a punto una metodica adatta alle proprie macchine e cambiarla e soprattutto riuscire a fornire un prodotto che sia ugualmente apprezzato dal proprio consumatore, pena una forte riduzione delle vendite. C’è poi la questione delle importazioni di frumento (quasi la metà di quello che in tutto lavoriamo su scala nazionale), ma come se non bastasse, dobbiamo, con il frumento importato, compensare le mancanze qualitative di quello dalla produzione interna. Ciò non implica dire che il “nostro” frumento non sia buono. Sicuramente ha aspetti di pregio ma non ci si può fissare su aspetti che sono irrilevanti per l’acquirente e che non hanno nemmeno alcuna implicazione per la salute. Questo è un ritornello che si sente spesso, a gran voce, da diversi disinformatori professionisti. Il frumento duro di origine italiana ha spesso bassissimi residui (sia di principi attivi, sia di micotossine), soprattutto se di origine meridionale in cui le condizioni ambientali sfavoriscono l’attività dei funghi patogeni e la bassa intensificazione colturale porta a modeste applicazioni di principi attivi nella fase finale del ciclo. Ma il frumento di importazione deve rispettare (per legge) i limiti imposti a quello di origine nazionale: se qualcosa fa male, appunto, non importa dove sia stata prodotta, ma quanta ce ne sia. Tali limiti escludono che possano esserci rischi per la salute derivanti dal contenuto in residui. In altre parole, se anche tutto il frumento (o semola o suoi prodotti) che consumiamo avesse un tenore in residui identico al limite massimo, non sarebbe possibile ravvisare rischi per la salute. In gergo tecnico: non ci sono rischi concreti. Ci sono tanti rischi che escludono i rischi. E sono debitamente considerati dalle autorità preposte, come l’agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Studi che dimostrino i rischi no. E nessuno dei disinformatori seriali che propalano bufale sui rischi per la salute ha mai dimostrato l’esistenza di tali rischi concreti. Al contempo, lo Stato e l’Unione Europea hanno comunque messo in essere un sistema di indagini per valutare che tali rischi non sussistano nel frumento in commercio. E infatti è successo, in alcuni casi, che partite non conformi alle leggi vigenti siano state rifiutate. Purtroppo, non è altrettanto facile controllare la miriade di agricoltori italiani perché, appunto, hanno molti piccoli lotti, quindi i piccoli agricoltori hanno meno possibilità di controllare quel che ottengono. La produzione italiana di frumento duro è in larga parte proveniente da una miriade di piccoli agricoltori, spesso con poca capacità di organizzare al meglio i fattori della produzione (e ciò comporta perdite di resa), con poca capacità o, nelle migliori delle ipotesi, possibilità di accedere alle innovazioni. Peraltro, l’età media di tali agricoltori è relativamente alta e la scolarizzazione bassa. Non voglio farne una tragedia, ma abbiamo un bisogno sfegatato sia di innovazione, sia della capacità di recepirla, sia di aumentare la dimensione media delle aziende e l’aggregazione degli imprenditori. Quest’ultimo punto è fondamentale anche per poter collocare al meglio la produzione sul mercato. Gli acquirenti del frumento (i molitori) sono pochi rispetto agli agricoltori e desiderano poter interagire con meno attori della filiera. E se ciò non accade, il potere contrattuale dei molti viene compromesso. E nei fatti lo è.
Veniamo al glutine. Una patologia alquanto famosa, la celiachia, ha a che fare con il glutine e attualmente l’unica strategia affinché un celiaco non abbia problemi è quella di escludere il glutine (e anche alcune altre proteine) dalla propria dieta. Per fortuna, solo una piccolissima frazione della popolazione è affetta da celiachia. La percentuale è in media intorno all’1% in Italia ma si stima possa essere più alta. Ad ogni modo, per poter diventare celiaci, serve avere dei geni di predisposizione e meno del 40% degli italiani ha questi geni. Peraltro, avere i geni di predisposizione non è affatto sufficiente per diventare celiaci e gli effetti scatenanti non sono del tutto chiari. Sì, se da un canto la celiachia è una condizione patologica ben definita, lo stesso non si può dire del marasma di intolleranze o sensibilità al glutine riferite da più parti. In effetti potrebbe esistere un’intolleranza di tipo non celiaco al glutine, ma nella stragrande maggioranza dei casi riferiti dalle persone, tale intolleranza è autodiagnosticata. Spesso le persone credono di avere malattie e le attribuiscono erroneamente a una o l’altra causa. Nei fatti, comunque, tale intolleranza è molto difficile da diagnosticare. Questo perché si deve prima escludere la celiachia e poi riuscire a escludere, con dieta ferrea, l’ingestione di glutine. E non è per niente semplice. È interessante notare che in una ricerca in cui i pazienti riferivano di essere intolleranti, ma non celiaci (e sincerato che non lo fossero) avessero avuto più problemi quando non ingerivano glutine rispetto a quando lo ingerivano (ovviamente erano ignari di cosa ingerivano). Peraltro, l’esistenza della sindrome di sensibilità al glutine di tipo non celiaco è anche in dubbio, proprio perché una patologia deve poter essere riconosciuta chiaramente e tale eventualità, al momento (e purtroppo) non sussiste. Ovviamente nel settore c’è stata molta disinformazione, visto che diverse persone (ahinoi, perfino medici, talvolta) hanno cominciato a supportare, pur senza evidenze scientifiche, che se il glutine fa male a qualcuno, allora fa male a tutti. Credo sia facile capire che la preposizione è infondata, visto che qualcosa che fa male a una persona non per forza fa male ad altri.
Fatto sta che i problemi al glutine hanno fatto tornare di moda i grani antichi: il nome stesso fa attribuire agli stessi poteri taumaturgici. Le persone si innamorano spesso del nome “antichi” e grazie a quel nome sentono sapori e profumi che quel prodotto non ha affatto. Anche in questo caso, non sto certo dicendo che i grani antichi siano da buttare. Anzi, tutt’altro. Sono un’importante riserva di “geni” per il miglioramento genetico e aiutano a aumentare la variabilità genetica dei frumenti coltivati. Inoltre, possono anche avere particolari caratteristiche. Ma spesso, di fronte a un panel test in cui i panelisti sono ignari di cosa stiano assaggiando, non vengono affatto ritrovati tali sapori. Anzi, spesso risultano meno graditi dei pani o pasta di grani moderni. Il glutine dei grani antichi è quasi sempre meno tenace di quello dei grani moderni. Anche in questo caso, qualcuno ha sollevato l’ipotesi, del tutto infondata, che un glutine meno tenace sia più digeribile, ma non esiste alcuna evidenza di ciò. La tenacità è una misura strumentale che si fa con impasti (farina o semola, acqua, sale), mentre la digeribilità dipende dalle condizioni del tubo digerente: un processo di masticazione, un pH molto basso nello stomaco, presenza di enzimi nell’intestino, senza contare che spesso mangiamo il pane o la pasta insieme a condimenti vari che possono intervenire molto nella digeribilità del prodotto. E in tutto ciò c’è lo zampino (d’elefante) della dieta nel complesso e dello stile di vita. Il glutine dei grani antichi, quindi, non è per niente più digeribile di quello dei grani moderni. Un’altra cosa sui grani antichi. I celiaci non reagiscono a tutto il glutine (ossia a tutta la sequenza degli amminoacidi che lo formano), ma solo ad alcuni “pezzi”. Tali pezzi sono stati chiamati “epitopi tossici” (un pessimo termine per un pezzo di proteina) in quanto in prove in vitro è stato osservato che sono questi pezzi a cui la mucosa intestinale reagisce. E occhio, questo vale per i celiaci, non per tutti. Coi grani antichi è arrivata anche un’altra bufala: ossia sostenere che siano meno “allergenici” rispetto ai moderni. Ma ironia della sorte, il glutine è un complesso formato da due proteine, le glutenine e gliadine. La tenacità dipende molto dalle glutenine e nel miglioramento genetico il rapporto tra glutenine e gliadine è aumentato, ma gli epitopi tossici sono contenuti prevalentemente nelle gliadine, che sono più presenti nei grani antichi. Come dicevo, non c’è una differenza di salubrità tra antichi e moderni, ma se tale differenza dovesse essere desunta solo dal contenuto in epitopi tossici, beh, allora gli antichi sarebbero meno salubri: i grani antichi non hanno meno glutine dei moderni, ne hanno di più, spesso molto di più. Il frumento, come ogni specie, cresce grazie alla fotosintesi. La fotosintesi dipende da molti caratteri (esempio la disponibilità di acqua e nutrienti, le temperature, la durata della stagione di crescita e ovviamente anche il genotipo). Il contenuto proteico della granella (e in ultima analisi di glutine, essendo questo una frazione abbastanza stabile delle proteine della granella) dipende da quanto azoto la coltura riesce ad assorbire e portare nella granella. L’azoto viene poi “convertito” in proteine. I due processi (fotosintesi e accumulo di azoto) possono quindi avere decorsi diversi. Con il miglioramento genetico abbiamo aumentato moltissimo il potenziale produttivo delle varietà di frumento (e non solo), ma non siamo riusciti a intervenire molto sulla sua capacità di assorbire l’azoto e traslocarlo alla granella. Risultato? I grani antichi assorbono circa la stessa quantità di azoto rispetto ai moderni, ma spesso hanno una produzione inferiore del 30-70%. Ergo, i grani antichi “concentrano” meglio l’azoto nella granella e infatti hanno per questa ragione molte più proteine e quindi più glutine rispetto ai moderni. E tale glutine è meno tenace e con maggiore presenza relativa di gliadine (e quindi epitopi tossici). Risultato? Chi vende o vuol promuovere prodotti senza glutine dirà che il glutine fa male a tutti, chi vende o vuol promuovere i grani antichi dirà che questi siano più salubri, ed entrambe le affermazioni sono false”.
Tratto da: https://www.ilpost.it/antoniopascale/2021/10/12/a-proposito-di-pane-fantasie-e-bugie/