Prima di tutto la Peronospora (Plasmopara halstedii). In Italia stiamo messi così così: nel corso degli ultimi anni si è assistito a una crescente rilevanza del problema, proprio perché a nuove zone di coltivazione corrispondono nuove razze. Tuttavia se conosciamo molti ceppi identificati in Francia e in Spagna non siamo ancora in grado di identificare i funghi nostrani (da poco è stato avviato un progetto di ricerca triennale a cura del CREA, che interessa la regione Marche per identificare, attraverso il Sistema universale per la determinazione e la designazione delle razze di P. Halstedii, nuove razze di peronospora).
Ciò significa che nonostante siano stati identificati dei geni di resistenza, nella fattispecie ci sono quelli tipo I (caratterizzati dall’assenza di sintomi sulla parte aerea della pianta) e quelli di tipo II (caratterizzati da sintomi deboli di sporulazione limitate a cotiledoni, nella sostanza il patogeno non raggiunge mai le foglie vere), insomma nonostante questo non conosciamo bene i sempre più virulenti ceppi nostrani, che seguendo la inesorabile legge darwiniana, si stanno adattando per superare le resistenze. Dunque, in primo luogo ci sarebbe bisogno di uno screening scientifico e di largo respiro, sostenuto da una rigorosa metodologia accurata (uno-due armadi climatici per poter svolgere in continuo per almeno due anni la valutazione degli isolati di P. halstedii; personale tecnico dedicato solo a P. halstedii per almeno due anni; e un po’ di soldi, ovvio).
Meglio dirlo subito: il miglioramento genetico contro la Peronospora funziona molto meglio se si lavora in squadra. Infatti risulta più risolutivo se è affiancato da opportune pratiche di coltivazione e difesa della coltura. Sappiamo per esempio che: a) avvicendamenti di 4 anni abbassano di molto il libello del rischio; b) l’umidità del terreno deve essere mantenuta più bassa possibile, dunque sono essenziali epoche di semina adeguata alle condizioni stagionali; c) bassa deve essere anche la saturazione del terreno, dunque è opportuno garantire una struttura ottimale del terreno e ci vogliono adeguate lavorazioni; d) lo sviluppo della coltura è fondamentale, difatti, una preparazione tempestiva del letto di semina, la scelta di una genetica vigorosa, e un’adeguata concimazione riducono notevolmente il rischio.
Comunque, all’uopo sono a disposizione dell’imprenditore agricolo vari ibridi. Alcuni di questi riescono ad affiancare il lavoro agronomico suddetto, e si può ottenere un buon, efficace e non invasivo diserbo, intervenendo in modo più mirato grazie a ibridi tolleranti alle imididazolinoni (IMI tolerant) o alle solfoniluree.
Interessante poi è quel tipo di miglioramento genetico focalizzato a ottenere ibridi con percentuali di acido oleico superiori all’80%, (in etichetta: HOSO – High Oleic Sunflower Oil) perché quest’ultimo ha ottime caratteristiche salutistiche.
E tuttavia l’olio di girasole alto oleico è utile anche per far girare motori diesel, perché è più stabile (ha un numero maggiore di cetano) e dunque la combustione risulta più rapida. Considerato che è in crescente espansione la richiesta di oli per la produzione di carburanti, nonché le sempreverdi esigenze salutistiche, un buon ibrido di girasole, frutto della indefessa innovazione e dello studio e della ricerca, potrà far sorridere e colorare il mondo, potrà limitare la peronospora, migliorare l’efficienza di alcune pratiche agronomiche e dunque non solo simbolicamente colorare davvero il mondo.