Slow Food ne ha fatta di strada, da quando fu fondata, quasi 40 anni fa, nel 1986, con il nome di Arci Gola. E’ un brand cosmopolita (difende strenuamente i prodotti locali, preferibilmente a Km0, ma non si oppone ove possibile alla loro esportazione), ha lottato per la sovranità alimentare (la sua idea di sovranità dovrebbe essere diversa da quella portata avanti da Fdl, anche se ad oggi fatico a individuare le sfumature), e per una maggiore consapevolezza alimentare (anche se ha difeso, simbolicamente, il pane di ieri che non sempre c’era, dunque lo ha difeso idealizzandolo).
Nel percorso vanno certamente applauditi i suoi presidi (un modo per far conoscere alcune varietà e colture non più mainstream) e in senso lato le idee per un’agricoltura migliore. Se non si parla di questi argomenti poi i cittadini si accontentano di quello che offre il convento.
Tuttavia, molti indizi ci spingono a dire che un’associazione come Slow Food possa esistere, avere la lunga vita che gli spetta, professare la fede nella lentezza, solo in una dimensione di capitalismo avanzato: produttivo, veloce, tecnologico. Non sarebbe mai potuta nascere e prosperare ai tempi di mio nonno contadino, e cioè ai primi del Novecento, ma nemmeno ai tempi di mio padre, che è del 1937. Fino a l’altro ieri, l‘agricoltura era un mondo stagnante, poco produttiva (la resa media dei cereali è rimasta invariata per 10 mila anni, attestandosi su una tonnellata/ettaro) e nonostante si seguivano i tempi della natura, qualunque cosa voglia dire questa affermazione fallace ma suggestiva, i ritmi di lavoro erano stressanti.
Le famiglie contadine con quel loro modus vivendi oggi sarebbero definite tossiche. Vuoi per lo sfruttamento della manodopera infantile (siccome si produceva poco tutti dovevano lavorare la terra: mio padre ha studiato solo quando è arrivato il trattore), vuoi per il tempo dedicato alla cura dei campi (alcuni miei parenti camminavano dalle tre di notte alle sette del mattino per raggiungere i campi, con le scarpe legate attorno al collo, perché ne avevano un solo paio e dovevano preservarle), e aggiungiamo la condizione della donna (soprattutto al sud) che faticando di più, per le varie incombenze domestiche oltre che agricole, tendevano anche ad avere esaurimenti nervosi niente male. Tanto per dire, gli esaurimenti venivano curati al men peggio, o in alcune zone della Campania e della Puglia, le donne sostenevano di essere state morse dal ragno, così arrivavano i musicisti, suonavano la tarantella, e la pazzarella, scendeva negli inferi, schiacciava il ragno e saliva con animo rinnovato (basta sfogliare i dimenticati libri di Ernesto de Martino per capire come la povertà, la miseria, la morte prematura dei bambini, avessero creato la terribile sensazione di non essere padroni del proprio destino e l’unica speranza era ricorrere a pratiche magiche per agevolare gli dei, pagani e non).
Il mondo moderno e benestante che permette oggi a migliaia di persone di ballare la taranta, con scenografie bellissime e costose e impianto luci energivoro, è lo stesso mondo, moderno, efficiente, produttivo, capitalistico che permette a un’associazione come Slow Food di prosperare e di dettare un decalogo come quello appena pubblicizzato dalla Presidente dell’associazione Barbara Nappini, in attesa del G7 agricoltura e pesca (da 25 al 29 settembre, Siracusa).
In questo numero cercheremo di esaminare qualche contraddizione di Slow Food.