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Home Editoriali

L’agricoltura? Il regno delle contraddizioni

da Antonio Pascale
08/09/2022
in Editoriali
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L’agricoltura, di questo regno parlano tutti, ed è giusto così. In fondo, tutti mangiamo, più o meno tutti vantiamo qualche specialità culinaria, almeno un prodotto tipico, o siamo i custodi di sacre ricette di famiglia. Sì, di agricoltura parliamo tutti. Con che precisione? Beh, a parte che la precisione non è da tutti, ma nello specifico caso agricolo, se mettiamo in fila alcune nostre considerazioni ci rendiamo conto che quello dell’agricoltura è il regno delle contraddizioni.

Per esempio, parliamo con orrore e turbamento dell’agricoltura intensiva e desideriamo il piccolo orto e il contadino autentico, e solo quello di nostra fiducia, come se poi non fossimo otto miliardi di persone (e prima che inizi la decrescita demografica raggiungeremo i dieci miliardi), tutte bisognose di cibo e di ricette e di prodotti tipici di cui vantarsi. 

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Ma la logica vuole che se intensifichiamo e rendiamo intensiva e produttiva la poca terra agricola che abbiamo, a parte che nutriamo i cittadini, ma possiamo diversificare la produzione, utilizzare la restante terra per altri usi agricoli, insomma fare parchi, oasi, isole, basta che non cementifichiamo.   

Che poi un paese come il nostro, fatto di più ossa e che polpa, per dirla alla Manlio Rossi Doria (sia lode al centro Rossi Doria di Roma Tre, diretto da Anna Giunta) insomma in un paese come il nostro, dove si contano sulle dita le poche pianure sulle quali provare a fare un minimo di agricoltura professionale (la pianura Padana, la piana del Fucino, piana del Sele, la piana di Sibari), e sono invece innumerevoli le asperità dell’osso, in un paese come il nostro, quei presunti contadini piccoli e autentici che tanto aneliamo, sono un problema per tutti.

Metti la stanchezza: quegli agricoltori sono ormai invecchiati, con troppi calli e mani rovinate dall’artrosi. Vuoi le difficoltà economiche dovute alle aziende molto piccole, e quindi devi prendere il trattore, arare pochi moggi di terreno, poi riprendere il trattore, scollinare, trovare un altro tuo moggio, ararlo, e poi raggiungere il terzo pezzettino di terra di tua proprietà, frutto dell’eredità di famiglia, nonché di maledizioni varie dei tuoi bisnonni, e fare i lavori anche lì.

E insomma visto questo, possiamo dire che nel nostro paese il problema non è l’agricoltura intensiva, al contrario è l’agricoltura piccola e disordinata: ci pensate a quanto si spreca? Quanta CO2 in atmosfera? Per ottenere raccolti non così abbondanti! 

Poi vogliamo il Km0 e ci lamentiamo dei prodotti che arrivano dall’Egitto e dal Marocco. Non ho mai capito perché tanti della sinistra multiculturale e cosmopolita salvano, per fortuna, le persone in mare, poi vogliono in campo agricolo il recinto e cioè il prodotto locale a chilometro zero, preferibilmente del contadino fuori il raccordo anulare, che chissà poi perché lui, il fuori raccordo, avrebbe terra più fertile e migliore professionalità degli altri. 

Insomma, da una parte salvi le persone dall’altra parte metti le barriere al commercio e alla concorrenza, sia pure per le clementine, pomodori, olivo e altre colture di pregio che appunto desideriamo, esportiamo, ma che quando dobbiamo importare allora NO: non sono buone, viva l’Italia, viva il contadino del fuori raccordo anulare.

E la destra in fatto di agricoltura non è che ha idee diverse: “prima i prodotti italiani”, oppure “aiutiamoli a casa loro”. E va bene, immagina se i tedeschi dicessero facciamo a meno delle mele italiane, daje cominciamo a coltivarle noi, sulla scia degli olandesi che con pochissima terra e sotto serra, hanno messo su coltivazioni ad atmosfera controllata con poca, scarsissima, chimica, tanto è vero che sono diventati il quinto, dico il quinto produttore nonché buoni esportatori di pomodori. 

Se tutti chiudessero i confini in nome di una presunta superiorità dei propri prodotti, fossero pure crauti o alghe, noi dei nostri prodotti estrosi e bizzarri e delicati e profumati (roba da chef prelibati e sciccherie varie), che ce ne facciamo? Ci mangiamo in nome dell’Italia first tutte le mele prodotte in val di Non? 

Senza esportazioni, sarebbero svariati chili a testa al giorno, non lo so se una scorpacciata così abbondante toglie il medico di torno o ci manda al pronto soccorso o alla neuro deliri. 

In un paese così, in cui i contendenti si azzuffano sulla agricoltura ma non si conosce nemmeno la differenza tra zappa e vanga, come si può migliorare il regno agricolo? Cioè liberarlo dal dominio del “sentito dire2 e concentrarsi con professionalità sulle cose utili?

Non lo so, nessuno lo sa e pochi vogliono occuparsene.

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Una lunga, interessante storia: dalla Calabria a Bergamo alta, storia di fatica e successo e innovazione che dura da tre generazioni: una bella intervista con Roberto Amaddeo, Titolare/socio del locale storico ristorante “Mimmo”.

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