Idealizzare il passato è bello, un modo per dimenticare cose che non fa piacere ricordare. Basta poco e un ambiente ostile e difficile diventa un mondo incantato: la nostalgia, tipica dell’età matura, fa il resto.
Per esempio, idealizzare il passato agricolo è uno sport globale: chi non ricorda quanto erano buone le fragole, quanto era buono il pane, quanto era buono tutto una volta. Quando poi chiedi, ma “una volta” quando? In genere si risponde: quando ero bambino. Facciamo tenerezza noi umani, vero? Non è che era buono il pane o le fragole, era bella e buona l’infanzia. L’infanzia è una dimensione importante, è il regno della prima volta, la prima volta che abbiamo disegnato e ci siamo stupiti dei colori, la prima volta che qualcuno di caro ci ha abbandonato. Come dimenticare la prima volta?
La prima volta provoca la prima lacrima, così la chiama lo scrittore ceco Milan Kundera. Dice: la prima volta che vediamo i bambini che corrono scalzi nei prati ci commoviamo. Anche la seconda volta ci commoviamo, ma perché ci ricordiamo che ci siamo commossi la prima volta. Insomma, per Kundera la seconda lacrima è un’emozione di secondo grado, non ci si focalizza più sui bambini ma su noi stessi, commossi alla visione dei bambini. La seconda lacrima è per Kundera il “kitsch”.
Il mondo agricolo oggi è il mondo del kitsch, un mondo costruito da noi tutti che ricordiamo come ci siamo commossi in alcuni momenti della nostra infanzia. Idealizziamo il passato agricolo calcando la mano su immagini stereotipate. Gridiamo a gran voce: allora sì che c’era un’età d’oro, prima che arrivasse la modernità a corrompere il tutto.
Questo mondo agricolo fatato, dove le cose erano più buone, è incorruttibile a prova di bomba e di dati e di statistiche. Hai voglia di spiegare che quello era il mondo della fame, delle carestie e delle morte prematura dei bambini. Hai voglia di spiegare che eravamo schiavi della bassa produttività e del circolo infernale del maggese, cioè mettevamo i terreni a riposo e così facendo perdevamo SAU. Che facevamo di tutto per aumentare la produzione, inutilmente, e di tanto in tanto, grazie a qualche casus belli, bisognava mettere su una guerra per avere più terre.
Hai voglia di ricordare che siamo usciti dalla povertà solo di recente, nella seconda metà del ‘900, quando l’agricoltura grazie a solo tre innovazioni ha fornito più cibo. Mangiando meglio, con un apparato immunitario più forte ci siamo protetti da molte di quelle malattie tipiche della sottoalimentazione. Poi vaccini, antibiotici, bagni piastrellati, fognature hanno fatto il resto.
Niente da fare, non smuovi l’immaginario, perché è sentimentale. Se pesco il mio primo ricordo devo tornare a quando avevo tre anni, 1969. Allora passeggiavo con mia nonna (a Sant’Agata dei Goti, il paese dei mei nonni materni) con un pezzo di pane in mano. E ricordo un uomo (mia nonna lo chiamava il brigadiere, e forse lo era) che per scherzare faceva finta di rubarmi il pane. Era il primo furto che subivo, per scherzo, ovvio. Ma come dimenticare il senso di protezione verso il pane? Mi rivedo, infatti, intento a nascondermi dietro mia nonna per proteggere il mio pane.
Se ripenso a quel pane, ovviamente, me lo ricordo buonissimo. Se ripenso a mia nonna, naturalmente me la ricordo come un baluardo che mi proteggeva dal brigadiere. È un ricordo idealizzato, avevo tre anni, sarà stato un tozzo di pane nero che mia nonna mi avrà dato per farmi stare buono.
Noi, comunque, ci proviamo a raccontare alcuni aspetti dell’agricoltura prima di Masterchef, cioè quel mondo rurale con una serie di caratteristiche ostiche e difficili che abbiamo idealizzato o censurato. Ci proviamo non per distruggere la nostra infanzia, i tozzi di pane e le nonne, no, ci mancherebbe. Ci proviamo per proteggere le infanzie che verranno.