Siamo disorientati, per questo parliamo sempre delle origini. Siamo confusi e dunque attribuiamo alle origini uno stato di quiete e di armonia. Siamo consapevoli della nostra disarmonia causata dal troppo daffare e rimpiangiamo le origini.
Se le origini contengono un serbatoio di purezza capite bene com’è facile quando ci allontaniamo dalle origini pensare di corrompere tutto. Gli esempi sono quotidiani. Prendiamo la notte della taranta, il festival itinerante che vuole valorizzare la musica salentina. Molti si lamentano che sì, l’obiettivo è riproporre la tradizione musicale contaminandola con altri linguaggi, ma qui si esagera. Si stanno tradendo le origini, la tradizione musicale, il territorio ecc.
Ragionamenti siffatti sono possibili proprio perché si parla di origini senza conoscerle. Si idealizzano le origini. Nel caso della Taranta, per esempio, la maggioranza dei ragazzi che frequenta il festival e balla la pizzica sicuro non ha letto La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud di Ernesto De Martino, e nemmeno è consapevole del perché si balla la taranta.
Le origini della taranta sono da ricercarsi nelle pratiche magiche di un Sud contadino e poverissimo, dove, come diceva De Martino: “possessione, esorcismo, fattura e contro fattura sono da ricondurre all’insicurezza della vita quotidiana”. Cos’altro è il ricorso alle pratiche magiche se non un tentativo di limitare e tenere a bada la fragilità? Una protezione? Del resto, come non essere insicuri?
Alta mortalità infantile, alta mortalità delle donne per parto. E poi la fatica. Le lunghe marce quotidiane per raggiungere il luogo di lavoro. Partenza a mezzanotte e arrivo all’alba. La stanchezza fisica, la prostrazione, la mancanza di cibo. Vedevi i fantasmi, i morti, le streghe. “Sono cose che capitano a noi contadine”. Così una contadina disse a De Martino, con tutta la rassegnazione del caso.
Se non fosse per le innovazioni in agricoltura, il boom economico, la manifattura, la Cassa del Mezzogiorno, insomma la modernità con tutto il carico di trasformazioni che porta con sé, oggi con molta probabilità, i rituali della taranta sarebbero ancora strambi fenomeni locali, con i quali le donne esprimevano la propria sofferenza psichica, il dolore, la condanna a un ruolo sub alterno, e il tentativo di guarigione, contorcendosi e viaggiando, aiutate dal ritmo della musica, negli inferi, alla ricerca del ragno demoniaco, causa dei mali, per schiacciarlo e tornare in superfice rinnovate. Se il benessere non fosse arrivato, oggi non parleremo di origini e non partiremmo da tutta Italia pieni di gioia e di energia per ballare la pizzica. Meno male che le origini non sono più quelle di una volta.
Noi, a proposito di origini, vorremmo dedicare questo numero a un monaco grazie al quale è nata la genetica agraria, e non solo: Gregor Mendel (Repubblica Ceca, 1822-1884), che nella sostanza ha studiato, capito molte cose, offerto a tutto noi un abbecedario della biologia. Eppure i suoi studi sono stati ignorati fino all’inizio del Novecento.
Grazie a Mendel ci siamo, per fortuna, allontanati delle origini dell’agricoltura e grazie a lui possiamo (dovremmo) guardare avanti, anche se nell’immaginario si continua a rimpiangere la vecchia e cara e naturale agricoltura. Così facendo non riusciamo nemmeno a farci domande semplici. Come scrive il professore Paolo Inglese: “che tipo di cultura e di tradizione e di antropologia stiamo costruendo oggi in agricoltura? Che cultura si produce oggi nelle campagne? Esiste una nuova cultura “contadina” in Italia. Perché l’ultimo proverbio nato in agricoltura ha quasi un secolo?
Il paradosso che dobbiamo affrontare oggi è questo: anche grazie agli studi di Mendel siamo andati avanti, migliorando colture e sistemi agrarie ma ignorando Mendel e rimpiangendo le origini, siamo culturalmente fermi a un secolo fa.
Che fare? Intanto proviamo a riassumere il lavoro di Mendel.