Il Pianeta non può reggere l’attuale sistema di produzione e consumo di cibo che da solo causa l’80% di estinzione di specie e habitat a livello globale, dice il report del WWF. Oh, l’80% è un dato enorme e pauroso, quindi ce lo ricordiamo, eccome. Anche i mass media ci vanno a nozze, lo vedete già il servizio, no? Campi irrorati da pesticidi, cibo spazzatura che inonda le tavole, cambiamento climatico, coste allagate, l’uomo colpevole di arroganza e superbia. Metti anche un bias (una fallacia) che funziona molto in questi casi: bias della disponibilità. Riteniamo vere le cose che più facilmente ricordiamo. Se vediamo cento e passa servizi come quello di cui sopra, che ci turbano e ci impauriscono, e poi subito dopo ci chiedono “ma secondo voi il cibo causa a livello globale un impatto sulle specie del 10% o del 80%?” noi ci ricordiamo di quelle immagini, il nostro cervello ce le rende disponibili, quindi senza consultare nessuna statistica diciamo: 80%. Naturalmente sbagliamo, ma a chi importa? In questo caso specifico l’associazione ambientalista ha raggiunto il suo scopo, l’ufficio stampa è contento, la copertura stampa è stata assicurata: l’80% dunque è la nuova cifra di riferimento, il nuovo mantra, e a che serve sapere che tali impatti a livello globale, ad esempio secondo l’Onu, rappresentano il 24% del totale? Tra l’altro in Europa gli impatti del sistema alimentare sono molto più contenuti, siamo al 10,3% secondo quanto riportato nel documento ufficiale della Commissione sul progetto Farm to Fork, e in Italia scendiamo al 7,6 per cento. Ma serve saperlo? Vince chi punta sul numero più alto.
Comunque, a prescindere dai dati corretti (che sono quelli riportai sopra, dell’ONU), quello che si evidenzia su larga scala è che nelle questioni agricole l’uomo appare sempre come il problema principale, tanto che qualcuno comincia a sperare che la nostra specie pian piano si estingua. Non in modo cruento, per carità, ma magari smettendo di far figli, così che il pianeta lasciato libero possa ritrovare la forza perduta.
Se siamo un problema così serio (e lo siamo certamente se la produzione di cibo impatta sull’estinzione delle specie per l’80 per cento), allora non c’è soluzione che tenga, a parte la nostra dipartita. Comunque, pure i vulcani sono un problema, con la spiacevole tendenza che hanno a immettere Co2 in abbondanza, e anche l’ossigeno lo è stato in passato (un bel problema) perché ha distrutto più del 90% delle specie anerobiche (che voi dite: vabbè, tanto erano microbi, sì d’accordo ma che ne sappiano se a lungo andare non avrebbero prodotto un uomo anerobico migliore di quello aerobico?). Insomma, il problema della vita è la vita stessa. Tutti noi vogliamo vivere e vivere bene, e dunque, siccome siamo 8 miliardi, le singole ambizioni di vita formano un grosso peso sul pianeta. Sembra quasi un paradosso: non volevamo un mondo migliore? Dove i bambini non morissero di malattie legate alla scarsità di cibo? Dove poche pratiche igieniche, antibiotici e vaccini, hanno allungato l’aspettativa di vita? Questo mondo ora c’è e dunque ecco qua: impattiamo. Se fossimo un miliardo di persone, impatteremmo di meno, quindi si potrebbe anche smetterla con l’innovazione medica e con l’abbondanza di cibo, piano piano torneremmo ai numeri dell’800.
Che vogliamo fare? Promuoviamo la vita o la morte? Nel primo caso (che auspico) cerchiamo di ragionare a partire dai numeri giusti. Sono la base per trovare le soluzioni (reali, controllabili, e che possono essere condivisi). A proposito di numeri e soluzioni. L’agricoltura da decenni è riuscita ad ottenere more from less. E tanto ancora si potrà ottenere, basta non spararla grossa. Dai, né col pessimismo cupo né con l’ottimismo a oltranza. Dobbiamo essere possibilisti: togliamo le emozioni in eccesso e ragioniamo caso per caso.
Qui una bella intervista a Giorgio Cantelli Forti, presidente dell’Accademia Nazionale di Agricoltura che analizza il report WWF.