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Esplorare l’inesplorabile, migliorare le vacche e il reddito degli allevatori.

da Antonio Pascale
16/12/2022
in Editoriali
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Ogni volta che vedo una vacca che rumina pacifica su un verde pascolo ho due moti d’animo contrastanti: da una parte penso che bella la natura, come sarebbe diverso e più pulito il mondo se ci fossero più scene come questa, in fondo la natura è semplice; dall’altra mi ricordo di una esercitazione di zootecnica che, a distanza di 30 anni, mi fa ancora sentire sia la complessità sia la puzza della natura.

Da giovincello, pur avendo letto Darwin, e pur professandomi ateo, ero un creazionista: ero vittima di quelle immagini celestiali, come la vacca al pascolo, che rendono la natura pittoresca e amabile. 

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Proprio per questo, per il mio latente creazionismo, l’impatto con le tecniche di miglioramento animale fu traumatico: l’esame di zootecnica consisteva, oltre allo studio della anatomia e fisiologia degli animali domestici, anche in un paio di esercitazioni pratiche, durante le quali apprendemmo che gli animali non sono più quelli di una volta. Grazie a un costante processo di miglioramento genetico si sono ottenute razze in grado di triplicare la produzione di latte. Un vantaggio per tutti.

Naturalmente, per permettere tutto ciò non basta selezionare una vacca con buone caratteristiche produttive, c’è bisogno anche di un toro con buone caratteristiche che mantenga alto il pedigree genetico.

In pieno campo è facile che un buon toro monti una vacca che non abbia quelle caratteristiche genetiche che vogliamo far passare nella progenie, o viceversa, che un toro che non abbia buone caratteristiche monti una vacca potenzialmente produttiva: e poi, diciamoci, la verità, è un peccato che un buon toro disperda il suo seme con una sola monta.  

Allora, per ovviare a tutto ciò, grazie ai potenti mezzi messi a disposizione dall’ingegno umano, si è pensato di fare in questo modo: si sceglie un toro (lo si segue fin dalla pubertà) considerato di “elevata genetica”, e si preleva il suo seme. Come? Innanzitutto, c’è una vagina artificiale, un po’ più grande di quelle che si possono trovare nei sexy shop. 

A differenza di quelle per uso, diciamo così, ludico, questa vagina serve non solo a raccogliere il seme, ma soprattutto a evitare lo shock termico che potrebbe uccidere gli spermatozoi. Dunque, in pratica è una vagina riscaldata: una specie di borsa d’acqua calda avvolge le pareti interne.

Si può usare una vacca in calore che fungerà da una cavia, oppure costruire un manichino. Generalmente la sagoma della vacca (di cartapesta, poco somigliante a una vera e propria vacca) è posta su un una macchina, come quelle che si vedono all’aeroporto, basse, con il cofano largo e la coda stretta. All’interno della sagoma, si nasconde il tecnico con la vagina artificiale pronta all’uso. 

Il professore di zootecnica parlava di questo metodo con molto orgoglio (che ha permesso a molti allevatori di avere buone produzioni di latte) e con grande rispetto per i tecnici che si occupavano dell’inseminazione. 

Ci elencava anche le loro attitudini, ormai, diceva (erano 30 anni e passa fa), difficili da trovare (attitudine a lavorare in modo indipendente, capacità di sopportare i cattivi odori, disponibilità, igiene e pulizia, interesse per gli animali e senso commerciale): “perché nessuno vuole più fare questo lavoro, la gente preferisce avere i cani belli, i gatti di razza, gli animali esotici, ma nessuno vuole avere a che fare con i nostri animali più domestici: e queste persone – continuava – sono le prime a lamentarsi del miglioramento genetico degli animali, dicono che è innaturale. Loro, invece, non si chiedono da dove vengono fuori i loro cani, basta che li portino a fare la sfilata lungo il corso.

Dopo passammo a osservare come il toro concedeva il suo seme, variante a): manichino b) uso di una vacca che fungeva da adescatrice, in questo caso un tecnico, con grande tempismo, nel momento dell’eiaculazione, praticamente, prendeva il pene del toro, lo toglieva dalla via naturale (questa volta ci vuole) e lo istradava verso la vagina artificiale: non disperdere il seme.

Infatti, il seme non viene disperso. Dopo il prelievo lo si sottopone a controlli macroscopici, microscopici e funzionali. Lo si diluisce aggiungendo, acido citrico, latte scremato trattato termicamente, tuorlo d’uovo, zuccheri, antibiotici (Penicillina, steptmocina, Lincomicina, spectinomicina) e si formano delle vere e proprie dosi inseminanti. Ogni dose andrà a inseminare una vacca.

– Come, chiedemmo noi?

– Con la tecnica uro rettale.

Vabbè, si trattò di uno scherzo, fatto a me, perché fui io il primo che chiesi: e cioè? 

Un’avvertenza: nonostante l’immaginario cinematografico ci ha abituati a tutto, la seguente tecnica può dare una spiacevole sensazione di nausea. 

Il tecnico indossa un grembiule di cuoio o di plastica, stivali di gomma, infila due lunghi guanti monouso, che praticamente coprono il braccio fino all’ascella, dopo di che introduce la mano destra nella cavità rettale della vacca fino sentire attraverso la parete rettale gli organi riproduttivi. Un buon tecnico sa riconoscere al primo tocco (sempre attraverso la parete rettale) la cervice per via della sua consistenza tonica. 

Dopo di che, stringe, tra pollice e indice, la cervice e intanto con l’altra mano introduce, attraverso il canale cervicale un congegno per l’inseminazione, in pratica una siringa con la dose di sperma, prelevata dal torno di cui sopra. E insemina.

Non dovevo inseminare la vacca, ma solo introdurre il braccio destro, opportunamente guantato e lubrificato, nel canale rettale della vacca, dopo averlo svuotato del materiale fecale e sentire la cervice.

Il tecnico mi fece indossare stivali e grembiule, infilare un guanto lungo, ben lubrificato. E andai, avanzai e subito dovetti svuotare l’ampolla dal materiale, come diceva il tecnico. Si trattava di merda, in sostanza. 

Comunque, mentre avanzavo alla ricerca di questa cervice, il professore spiegava che questa tecnica nuova, insieme ad altre, stava contribuendo a formare una buona progenie di vacche italiane. A questo punto, uno studente ebbe la brutta idea di dire: ma è innaturale.

Il professore di zootecnia, forse perché stava dalla mattina alla sera con gli animali, aveva una sua imprevedibilità. Passava dalla calma serafica all’eccitazione improvvisa, contro o a favore di una cosa. Dunque, rispose: “quello che è veramente innaturale è che gli allevatori devono farsi il mazzo con 4 vacche nevrasteniche, poco produttive e che si prendono pure un sacco di malattie. Questo è innaturale. È invece naturale e giusto tendere a migliorare gli animali, ma i tuoi genitori, chiese, che lavoro fanno?” 

– Mio papà è impiegato, mia mamma insegna. 

– Ecco qua, mettete degli impiegati e degli insegnanti in un’isola deserta e moriranno tutti, non sanno più come funzionano le cose, sono abituati ad andare al supermercato a comprare il latte, se lo bevono e tanto gli basta. Gli impiegati sono dei debosciati.

Poi urlò contro di me: Pascale, hai trovato questa cervice, ti vuoi sbrigare, che ci hai preso gusto?

Potete capire perché quando vedo le vacche al pascolo provo due moti contrastanti: ah la natura perduta, e l’altro, un po’ più terra terra, che mi porta a pensare che anche l’esplorazione del retto di una vacca può migliorare le vacche stesse e il reddito dei produttori.

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