Il New York Times ha titolato: Panico al Vegan food festival! Alla tappa newyorkese del noto Vegandale hanno partecipato tantissime, troppe, persone, e non tutti sono riusciti a entrare per vie delle lunghe file, della cattiva organizzazione e altri accidenti.
Migliaia di persone – dice il NYT – hanno vagato disidratati e “affamati, irritabili e infelici”. La confusione organizzativa che ha rovinato il festival, ha prodotto una buona mole di battute, che nella sostanza si declinavano attorno al concetto: ma come chi propone la liberazione degli animali da ogni forma di sfruttamento ha finito per ammassare migliaia di persone in un solo spazio, come nelle peggiori forme di allevamento.
Ma insomma, fatte le battute, la suddetta confusione è un monito. Non riguarda solo il movimento vegano (giusto per chiarire, ha la mia simpatia, non c’è niente di sbagliato nel tentare di limitare la sofferenza animale).
Il monito prende spunto da un commento di un partecipante al festival: “l’evento si è svolto relativamente senza intoppi quando vi ho partecipato due anni fa, ma era anche molto più piccolo. Ora non avevano la forza per affrontare le ondate di vegani che cercavano di sfondare quei cancelli”.
Molte avanguardie fanno rumore, sono colorate, polemiche, ma a livello numerico rappresentano una piccola percentuale degli otto miliardi e passa di persone che abitano la terra. Quindi, finché si è piccoli, la logistica, per così dire, è più facile, e ci si può permettere di essere duri e puri, ma appena si cresce un po’, i movimenti, pur nobili rischiano di diventare un’orda, vegana o meno che sia. Come mai? Perché, appunto, siamo otto miliardi, e il fatto che proponiamo o meno il piccolo autarchico orto, che viviamo o meno nei boschi lontano dalla pazza folla, la nostra scala di misura sono sempre gli otto miliardi di persone, e non i quattro amici al bar.
Vale per tutti. Una cosa è dire: voglio salvare il mondo se si è in due a ballare l’Hully Gully, ma se il numero aumenta dobbiamo produrre per soddisfare le esigenze di tutti noi e il mondo diventa pieno di contraddizioni.
Esempio: i cultori del bio insistono sugli agrofarmaci naturali. Non si capisce bene perché dovrebbero essere più sani di quelli prodotti dai migliori chimici della nostra generazione, ma tant’è. I bio preferiscono le piretrine, un insetticida che si ottiene da una specie di crisantemo. Coltivi le piante, le fai seccare e ricavi il principio utile (chimico ovvio ma naturale). Ora se ci fosse una conversione generalizzata al bio, avremmo bisogno di mettere a coltura milioni di ettari e ettari di crisantemi per produrre piretrine: occorrono 52.000 piante per ottenere 25 kg di polvere secca. Dove li mettiamo questi crisantemi? Come li produciamo? Già oggi gli Stati (africani e qualcuno nella Nuova Papuasia) che li coltivano usano tecniche intensive e qualche volta siccome pure i crisantemi bio si ammalano, sono costretti a usare sostanze chimicissime per salvare i crisantemi bio. La verità è quella scritta sulla targhetta della casa di Ischia di Eduardo De Filippo: “Che brutta cosa ‘a gente”. Siamo troppi.
Ma se invece la gente ci piace e vogliano renderci utili, dobbiamo rispondere alla domanda leninista: che fare? Forse la soluzione è produrre in maniera intensiva con meno sprechi e utilizzando strumenti utili alla sostenibilità. Temo una soluzione obbligata. Avanzo una scommessa, fra qualche anno, qualora il veganesimo, il bio, ecc. faranno numeri più grandi di adesso, si passerà al veganesimo e al bio super intensivo. Scommettiamo.
Oggi in questa newsletter ci occupiamo del perché siamo troppi e di cosa potrebbe succedere fra qualche decennio.