A proposito di vecchie tradizioni, ma l’oliveto intensivo? Ce ne parla Luigi Caricato, ideatore e direttore dal 2012 del più grande e autorevole happening al mondo dedicato ai condimenti: Olio Officina Festival.
“Qualche anno fa andai in missione in Catalogna, unico giornalista insieme con tanti accademici italiani membri del SOI, la Società di Ortofrutticoltura Italiana, a visitare alcune realtà produttive, tra cui il vivaio più importante al mondo in tema di olivi, oltre ad alcuni enti di ricerca, tutti all’avanguardia. Erano come bambini colti dallo stupore tipico infantile. Ricordo che la sera in albergo ci raccontavamo le nostre impressioni, e tutti erano consapevoli della pesante arretratezza del settore olivicolo italiano. Io facevo da motivatore: suvvia, rialziamoci, eravamo i primi della classe, la tecnologia in campo per gli olivi ad alta densità l’abbiamo ideata noi, loro l’hanno solo messa in atto, possiamo farcela, andiamo dal ministro e parliamone, dobbiamo reagire. Non si fece nulla, inascoltato. Perché alla parola potenzialità oggi si contrappone quella forse più seducente di tradizione, inclini a rincorrere l’immagine dell’olivo come era una volta, ignorando il fatto che nel frattempo tutti ci evolviamo, abbiamo lo smartphone al seguito, e ogni altra tecnologia utile al nostro benessere, ma rifiutiamo il progresso in olivicoltura. E intanto abbiamo chiuso i centri di ricerca di olivicoltura, troppo stanchi per reggere il peso delle tante glorie di un passato che non c’è più.
Per quanto riguarda l’alta o bassa intensità, intanto c’è da riconoscere un prima e un dopo. Il prima comprende un periodo di tempo estremamente esteso, da quando l’olivo è stato domesticato fino, all’incirca, alla prima metà del 1800. È soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo che si può parlare di olivicoltura così come la si intende oggi, ma non basta. Perché anche una pianta si evolve e si adatta all’ambiente, di conseguenza cambiano pure i criteri di coltivazione. Tanto per farci un’idea, ai tempi di Cartagine, nell’ultimo secolo a. C., vi erano da 25 a 64 piante per ettaro, per una distanza tra gli alberi di circa 13 metri l’uno dall’altro. Nel periodo romano antico questa distanza si era via via ridotta, da 12 metri fino ad arrivare a 7,5 metri. In un oliveto potevano esserci anche 120, o addirittura 170 piante, in base ai sesti di impianto adottati. Ancora oggi gli oliveti vetusti conservano le enormi distanze degli alberi di un tempo, ma si tratta perlopiù di oliveti marginali e spesso anche mal curati. Negli ultimi decenni si è arrivati a un sistema più intensivo di coltivazione, adottando una distanza di 5 metri per 5, o di 6 x 6, per una presenza di circa 400 piante a ettaro. Ecco, da qui al super intensivo il passo è stato breve: In un ettaro ci vanno addirittura 1700 olivi. L’alta densità comporta una razionalizzazione della coltivazione. I vantaggi sono tanti. Intanto una maggiore efficienza produttiva e qualitativa è garantita. Tutto ciò ha portato a un miglioramento genetico delle piante. Ora sono tutte a bassa vigoria, meno vegetazione fogliare e più frutto. Il conseguimento di tecniche colturali più sostenibili è un’altra conseguenza. Senza trascurare il fatto che un’alta meccanizzazione comporta da un lato una sensibile riduzione dei costi, dall’altro un’assenza di rischi, azzerando del tutto gli incidenti mortali e le gravi infermità che ogni anno vedono vittime tanti operatori ancora oggi. Si può rifiutare il progresso?”
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