Una narrazione dei senza: Gelati senza glutine, senza saccarosio, senza lattosio, senza grassi idrogenati, vanta un cartello in bella mostra in una Gelateria di Roma. Il fatto che sia puntigliosamente elencato cosa manca scatena la nostra fantasia su di quali ingredienti non menzionati siano invece pieni i gelati in vendita olio di Palma? OGM? antibiotici? Parabeni? Il fisico tedesco Lichtenberg chiedeva se fosse possibile pensare a un coltello senza lama, al quale manca il manico. Si chiedeva cioè se si può definire qualcosa per ciò che è e che non ha, oppure è necessario ricorrere a concetti positivi? E alla cultura del senza si affianca quella dello molto in voga nel marketing zero grassi, zero residui, chile metro zero, e via azzerando. Ma aldilà delle facili battute e dei quesiti filosofici, questa cultura del senza e dello zero merita qualche riflessione.
Tranne patologie importanti perché senza? Sia inteso sono perfettamente consapevole che esistono persone con particolari patologie, come la celiachia, il diabete, l’ipertensione, allergie o intolleranze a particolari sostanze, e che queste persone devono essere messe nelle condizioni di nutrirsi seguendo i dettami dietetici che assicurano loro una buona qualità di vita Le etichette sono una componente essenziale della comunicazione del rischio alimentare per queste categorie di persone.
Meglio dichiarare quello che c’è: Ma per tutti gli altri consumatori, la stragrande maggioranza, dovrebbe essere più importante sapere quello che c’è invece di quello che non c’è in ciò che mangiano. Infatti, fino a pochi anni fa la pubblicità decantava come vantaggi comparativi l’aggiunta di particolari ingredienti ai loro prodotti con doppia panna, con uova freschissime, con estratti di carne, con frutta scelta, e via dicendo. Ricordo che sa vendeva la pastina diglutinata (con contenuto raddoppiato glutine) come alimento biofortificato da usare nello svezzamento dei poppanti. Lo stesso valeva per i prodotti per la cura della persona. Chi non ricorda la saponetta che per sodurre tre volte veniva addizionata con un “boccettino di vero profumo francese”?
Più paura che conoscenza: Siccome ho piena fiducia nella professionalità degli esperti di marketing delle aziende alimentari e della grande distribuzione, credo che questo cambiamento radicale delle loro strategie sia da attribuire a un cambiamento altrettanto radicale delle percezioni e delle abitudini dei consumatori. L’aspirazione di soddisfare le esigenze nutritive, magari con qualche ammiccamento alla gola, sembra essere stata sostituita dalla paura o addirittura la convinzione che gli alimenti in vendita siano poco sani, se non pericolosi.
Da qui la mania di rassicurare il consumatore, cavalcando qualsiasi fobia collettiva, sia se essa è sostenuta da evidenze se e invece priva di qualsiasi seria giustificazione. E quindi il senza strombazzato a pieno fiato anche alcun senso: si sono visti cocomeri dichiarati essere glutine (quando mai un cocomero di glutine?), oppure carciofi senza glifosate (diserbante c che non può essere usato nelle carciofaie perché le piante di carciofo morirebbero insieme alle infestanti), e via dicendo. Oppure il senza aggiunto in fretta e furia nelle confezioni di prodotti per mettere in risalto l’assenza ingredienti comunque mai utilizzati in precedenza, come certi biscotti “senza olio di palma”.
Il marketing del senza è quindi doppiamente diseducativo: se da una parte insinua nel pubblico la convinzione errata che alcuni componenti degli alimenti siano nocivi indistintamente per tutti, e debbano essere demonizzati, anche quando sono dannosi solo per alcune categorie consumatori, dall’altra suggerisce l’idea che solo quei determinato prodotto sia salutare, che tutti gli altri siano malsani o pregiudizievoli per la salute.
Come mai come mai sempre in saccoccia al consumatore? Questa strategia contribuisce a generate sfiducia nei consumatori, che sono portati a credere che tutti gli alimenti siano provenienti da campi avvelenati e quindi contaminati da sostanze nocive o da processi industriali inquinanti, sensazione che non corrisponde alla realtà e che si ritorce negativamente anche su quei cibi dichiarati essere “senza”. Inoltre il processo di certificazione senza o dello zero ha comunque dei costi che sono scaricati sui consumatori, andando ad incidere sul prezzo finale del prodotto.
Tratto da La sporta consapevole. Riconoscere la qualità degli alimenti. Al di là dei miti di Andrea Sonnino, Tab Edizioni (che ringraziamo per la gentile concessione e anticipazione).