La cucina Italiana è Americana: Con la scoperta dell’America si determino l’arrivo in Europa di cibi oggi alla base della nostra cucina: pomodori patate, peperoni, solo per citarne alcuni. Soprattutto, però, l’America è il Paese che più di ogni altro ha influito sui modelli di consumo, anche alimentari, degli italiani.
Due momenti storici fondativi: Il primo è l’emigrazione di massa dei nostri connazionali oltreoceano, tra fine Ottocento e inizio Novecento. Il secondo, il processo di americanizzazione cui è andata incontro la Penisola dalla fine degli anni Cinquanta con il boom economico, che spezzò definitivamente i vincoli della scarsità e della denutrizione che avevano caratterizzato lo stile di vita delle classi popolari fino ad allora.
Com’era l’aspettativa di vita all’Unità d’Italia? Trent’anni, poco più che nell’antica Roma
Nel 1861 a causa di denutrizione, scarse condizioni igieniche, malattie infettive, assenza di antibiotici e vaccini, l’aspettativa di vita nel nostro Paese era bassissima: circa trent’anni, poco più che nell’antica Roma (le stime indicano ai tempi di Augusto, duemila anni fa, valori intorno ai venticinque anni). Il tasso di mortalità infantile – che incideva in maniera molto significativa sull’aspettativa di vita media nazionale – era spaventoso: nel 1863, di mille bambini nati vivi, 232 morivano entro il primo anno. Non solo: sui circa settecentosessantamila morti registrati in Italia in quell’anno, quasi la metà (oltre 374.000) risultava avere un’età tra gli zero e i quattro anni.
Da Nord a Sud, Alimentazione monotona, tipo Cere pallide”, “frolle costituzioni”, pellagra e malaria: nel 1873 il medico bolognese Carlo Maggiorani, nel riferire al Senato le condizioni di salute del Regno, descriveva “cere pallide, tempre di carne morbidamente impastate, macchine gracili e frolle costituzioni”, risultato della “caterva di mali” che ammorbavano la popolazione. Di questa “caterva di mali” in larga parte era responsabile la cattiva alimentazione. Al Nord era molto diffusa la pellagra, patologia tremenda – dovuta al mancato assorbimento di vitamina B3, che al suo ultimo stadio portava alla demenza. In Veneto ce l’aveva un contadino su tre, a causa della dieta monotona, che prevedeva solo polenta. Al Nord era molto diffuso pure il rachitismo, dovuto alla mancanza di vitamina D per scarsità di latticini e uova. Il Sud si salvava, poiché la vitamina D arriva anche dall’esposizione ai rag gi solari. Nel Mezzogiorno – su cui infieriva la malaria- era però diffuso il tracoma, malattia che colpisce gli occhi e che è legata all’uso di acqua non potabile, alle precarie con dizioni igieniche e alla cattiva alimentazione: piaghe che si aggiungevano a un contesto drammatico in cui i bambini erano costretti al lavoro in acerbissima età, si viveva in case tugurio, ed erano diffusi analfabetismo e degrado, come testimoniato dall’inchiesta parlamentare Jacini, condotta dal 1877 al 1886 per esaminare le condizioni dell’agricoltura nel Paese.
Vegetariani, ma non per scelta: pur con differenze significative, l’inchiesta Jacini racconta quasi ovunque, al Nord come al Sud, della presenza di regimi alimentari prevalentemente vegetariani. La carne vaccina, ma anche uova, latte e formaggi, il pane bianco, il pesce e la carne suina scarseggiavano o erano del tutto assenti sulla tavola dei ceti popolari. Allo tesso modo salumi, olio, vino, sale e zucchero erano di casa soltanto nelle famiglie benestanti. Alla fine dell’Ottocento l’Italia era all’ultimo posto tra le nazioni europee per consumo di carne.
“Mi emigro per magnar” Tra i quindici e i venti milioni di italiani lasciarono il nostro Paese nel periodo che va dal 1870 al 1914. L’emigrazione di massa all’estero, e verso l’America in particolare, aveva un unico motivo: la fame.
Sull’Oceano, dice Edmondo De Amicis: raccontando quello che vide la sera del 10 marzo 1884 imbarcandosi sul piroscafo Nord America (ribattezzato Galileo), così descrive i migranti nel suo fondamentale libro Sull’Oceano, d’impressionante attualità se pensiamo alle condizioni di chi, oggi, cerca di raggiungere per disperazione il nostro Paese: “[…] eran gente costretta ad emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. C’eran bene quei lavoratori avventizi del Vercellese, che con moglie e figliuoli, ammazzandosi a lavorare, non trovan lavoro; di quei contadini del Mantovano che, nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le quali, bollite nell’acqua, non si sostentano, ma riescono a non morire durante l’inverno; e di quei mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lira al giorno sudano ore ed ore, sferzati dal sole, con la febbre nell’ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido. C’erano anche di quel contadini del Pavese che, per vestirsi e provvedersi strumenti da lavoro, ipotecano le proprie braccia, e non potendo lavorar tanto da pagare il debito, rinnovano la locazione in fin d’ogni anno a condizioni più dure, riducendosi a una schiavitù affamata e senza speranza, da cui non hanno più altra uscita che la fuga o la morte. C’erano molti di quei Calabresi che vivono d’un pane di lenticchie selvatiche, somigliante a un impasto di segatura di legna e di mota, e che nelle cattive annate mangiano le erbacce dei campi, cotte senza sale o divorano le cime crude delle sulle, come il bestiame, e di quei bifolchi della Basilicata, che fanno cinque o sei miglia ogni giorno per recarsi sul luogo del lavoro, portando gli strumenti sul dorso, e dormono col maiale e con l’asino sulla nuda terra, in orribili stamberghe senza camino, rischiarate da pezzi di legno resinoso, non assaggiando un pezzo di carne in tutto l’anno, se non quando muore per accidente uno dei loro animali. E c’erano pure molti di quei poveri mangiatori di panrozzo e di acqua-sale delle Puglie, che con una metà del loro pane e centocinquanta lire l’anno debbono mantenere la famiglia in città, lontana da loro, e nella campagna dove si stroncano, dormono sopra sacchi paglia, entro a nicchie scavate nei muri d’una cameraccia, in cui stilla pioggia e soffia il vento”.
Gli emigranti si conoscono nelle Little Italy e scoprono una nuova dieta: l’emigrazione tra Ottocento e Novecento incide profondamente su una grande trasformazione dei consumi alimentari, sia nei luoghi di partenza sia in quelli di arrivo. Per i contadini “vegetariani” si compie una rivoluzione secolare sul piano della dieta, del gusto, della cultura e della mentalità. All’interno delle tante Little Italy, gli italiani del Nord, del Centro e del Sud finiscono per conoscersi molto più di quanto non potessero fare nel loro paese d’origine, dove povertà e mancanza di mezzi di trasporto rendevano praticamente impensabili spostamenti che non fossero di pochi chilometri. Le varie comunità italiane, così distanti nella madrepatria, si mescolano e di fatto creano una sorta di cultura nazionale, che in Italia ancora non esiste. A contatto con nuove disponibilità, gli emigrati in Argentina, Brasile, Stati Uniti e Canada modificano i loro comportamenti alimentari. Le migliorate condizioni economiche e l’accessibilità a prodotti che nelle aree di partenza non esistevano o erano destinati a pochi fanno sì che la cucina di- venti più varia, più ricca. Si fondono usi locali diversi, che mai in patria si sarebbero incontrati, con l’aggiunta di alcuni cibi tipici del Paese ospitante. Nelle Americhe i contadini iniziano a familiarizzare con carne, uova, latte, for- maggi, liquori e caffè.
La nostra cucina dunque si plasmò in America: Inizio a crearsi un intreccio tra una parte e l’altra dell’Atlantico. Solo per fare un esempio eclatante, gli spaghetti (chi mati ancora “maccheroni”) a Napoli erano cibo di strada orgogliosamente mangiati quasi sempre con le mani e rigorosamente in bianco. Pensate all’immagine di Pulcinella ancora presente sulle confezioni della pasta Voiello. Solo nel XX secolo, gli spaghetti divennero rossi e successivamente un cibo da mangiare a tavola. Risulta facile intuire allora come queste nuove modalità di consumo, che potremmo definire “riscatto sociale dei maccheroni”, si siano diffuse in America prima di fare ritorno nella terra natale. Stesso discorso per la pizza.
Il cibo sognato dai contadini diventa la cucina “fusion” degli immigrati: L’affermazione, il riscatto sociale, l’identità degli immigrati passarono dunque principalmente dalla cucina. Una cucina che lo storico inglese Dickie definisce con un termine contemporaneo: fusion. Nessuno, non appena le circostanze economiche glielo consentivano, rimase fedele alla dieta contadina, alla polenta, al panrozzo o alle erbacce cotte senza sale. Gli italiani in America cominciarono a maneggiare salame, formaggio, olio d’oliva, braciole di maiale, verdure del proprio orto e maccheroni conditi con la salsa. Alimenti che non erano il cibo dei contadini, bensì il cibo da loro bramato e sognato, e che aveva il dolce sapore della rivalsa verso i possidenti terrieri e verso la fame patita in passato. Vivendo a stretto contatto tra di loro nei grandi caseggiati popolari delle città siciliani e napoletani, toscani e piemontesi cominciarono rapidamente a scambiarsi le rispettive conoscenze gastronomiche (in precedenza solo raramente sperimentate). Questa cucina fusion cominciò ad accompagnare tutte le occasioni importanti delle comunità oltreoceano.
Dal libro, la cucina italiana non esiste, di Alberto Grandi e Daniele Soffiati (Mondadori, 19 euro). Ringraziamo l’editore per l’estratto.