C’è un’analogia tra alcuni documentari sulla natura e il porno. Il consumo frequente di video porno può allontanare alcune persone dai piaceri del sesso con un essere umano, imperfetto ma in carne ed ossa. Alcuni documentari sulla natura sono un po’ come il porno, estremizzano alcuni aspetti della natura, raffigurandola come incantevole o selvaggia.
Il primo approccio (natura incantevole) è irreale, disneyano, da Mulino Bianco, si cerca, cioè, di rendere sexy la flora e la fauna, la natura insomma, e convincendo gli spettatori che la natura è un luogo sexy, si rischia di disabituarli poi ad apprezzare il mondo reale: ad ogni luogo meraviglioso corrisponde fango, freddo, caldo, punture di zanzara, un conflitto insomma.
La seconda versione è ancora più pericolosa. A parte che il mito della natura selvaggia è impreciso nei fatti, nelle Americhe e altrove, ma rischia di essere un vero ostacolo per la comprensione delle dinamiche di alcuni ecosistemi, nonché della loro conservazione. Se il concetto di natura selvaggia diventa lo standard di riferimento, allora qualsiasi influenza umana è stata vista come negativa, dunque per mantenere selvaggia la natura, bisogna escludere qualsiasi approccio umano, tranne quello di recintare, anzi murare la natura e tenere lontani gli esseri umani. Cercare di “salvare il pianeta” mantenendo lo standard di natura selvaggia significa auto esiliarsi dalla natura: anche in questo caso si esclude il conflitto.
La natura non è sexy e non è selvaggia, semplicemente gli ecosistemi hanno dinamiche specifiche che comprendono anche noi umani, che, spesso lo dimentichiamo, siamo animali.
Comprendere gli ecosistemi e il nostro ruolo in questi è essenziale per limitare i danni che le nostre dinamiche umane portano con sé.
Finora per millenni è prevalsa la narrativa specista che vede noi umani come specie privilegiata, autorizzata dagli Dei a muoversi nella natura esercitando pieni poteri. Successivamente, a partire da metà degli anni ’70, grazie al filosofo Peter Singer (con il suo libro Animal Liberation, 1975) che lamentava proprio la concezione specista di molti esseri umani, motivata soprattutto dalla pratica di mangiare carne, alla fine del XX secolo, con la crescita del movimento di liberazione animale, si è diffusa una narrativa egualitaria.
La narrativa egualitaria sembra soddisfare alcuni requisiti: è laica, è basata sulla scienza e si propone pratiche moralmente responsabili. Il grande vantaggio della narrazione egualitaria, indubbiamente un progresso, è rafforzare, perlomeno negli intenti, la nostra sensibilità animale. Il problema è che questa narrazione inquadra selettivamente i fatti scientifici ed evita difficili questioni morali.
Filosofi della scienza come Hugh Desmond fanno notare che sebbene il movimento di liberazione animale ha molto contribuito al dibattito sul tema della sofferenza animale, non ha mosso poi di molto l’ago della bilancia. Gli esseri umani continuano a mangiare carne su larga scala, anche nei paesi in cui gli abitanti sono abbastanza ricchi e agiati da avere sostituti soddisfacenti della carne. Gli abitanti degli Stati Uniti, Australia e Argentina sono grandi mangiatori di carne, consumandone più di 100 kg pro capite all’anno, e questi numeri sono più o meno altrettanto grandi oggi quanto lo erano nel 1970. In Europa, ogni persona in media mangia circa 70 kg di carne all’anno, un leggero aumento rispetto al 1970.
Vero è pure che alcuni studi sottolineano che il consumo di carne nelle mense studentesche è diminuito di circa un quarto dopo che gli studenti hanno seguito un corso sull’etica animale.
Tuttavia, se si osservano più da vicino questi studi, i corsi di etica non hanno eliminato il consumo di carne. L’hanno ridotto solo durante il semestre, con un impatto sconosciuto sulle abitudini alimentari a lungo termine. La domanda è: i corsi hanno convinto gli studenti della realtà della sofferenza degli animali o semplicemente ne hanno ridotto il consumo attraverso il “meat-shaming”?
Consideriamo un’altra area di sofferenza sistematica degli animali: la ricerca scientifica. Negli anni ’80, organizzazioni come la PETA gettarono luce su alcune pratiche scientifiche inquietanti, come la recisione dei nervi spinali dei macachi, ai quali veniva poi permesso di masticare i propri arti (poiché non potevano sentire dolore). Le normative sono molto più severe ora, e il merito va sia alle organizzazioni per i diritti degli animali che alla narrativa egualitaria. Ma quanto abbiamo cambiato radicalmente il nostro utilizzo degli animali da laboratorio?
Dovremmo vietare la sperimentazione sugli animali? Il problema è che gli “organismi modello” – pesci zebra, polli, pecore, maiali e primati non umani – rimangono metodologicamente necessari.
Se alcune sperimentazioni possono essere evitate, come ci comportiamo di fronte a una nuova chemioterapia? O una nuova tecnica chirurgica? Se dovessimo vietare la sperimentazione sugli animali, dovrebbero verificarsi due cose. O dovremmo testare nuovi interventi medici direttamente sugli esseri umani e causare periodicamente una manciata di morti umane, oppure dovremmo abbandonare del tutto nuovi interventi medici rischiosi, rischiando la possibilità di ancora più morti umane.
Nessuno dei due è desiderabile. Infatti, i ricercatori medici che hanno effettuato interventi rischiosi sugli esseri umani senza previa sperimentazione sugli animali possono essere perseguiti penalmente.
Che soluzione dunque per evitare la porno ecologia e allo stesso tempo preservare benessere animale, nonché rafforzare attenzione verso altre specie senza creare un modello tanto falso non essere efficace?
Forse riconoscendo che dominiamo gli animali in tanti modi, anche quando cerchiamo di non farlo. Riconoscercelo significa perlomeno considerare il conflitto e le sue conseguenze, dunque ci porta a riconoscere un limite.
Secondo Hugh Desmond “abbiamo bisogno di una narrazione alternativa eticamente plausibile prima di rinunciare a quella egualitaria, una narrazione che sia più onesta riguardo al dominio umano e fornisca anche indicazioni sulle nostre responsabilità morali nei confronti delle altre specie: anche perché gli esseri umani fanno parte del regno animale e siamo arrivati a dominare anche quel regno. Negare la realtà ci impedirà di assumerci la piena responsabilità di prendercene cura”.
Fonti https://aeon.co/essays/human-dominance-is-a-fact-not-a-debate