I suoi occhi erano spilli, le capocchie rosse di vetro fuso realizzate da un minuto mastro vetraio tra passione e rabbia, erano iniettate di sangue. Negli ultimi istanti però quegli occhietti si erano chetati, perdendo la feroce intensità che li aveva contraddistinti per tutta la loro vita. Avevo un furetto albino, Furio. Se Biancaneve fosse stata un demone, sarebbe stata lui. Passava le giornate a schizzare freneticamente per la casa senza trovare pace. Non si raggomitolava sulle mie gambe pendendo dalle mie mani per ricevere tenerezze. No, anzi. Ogni carezza diventava una battaglia fatta di morsi e graffi, una furia animalesca che però amavo tanto perché, in fondo in fondo ma forse non troppo in fondo, mi sentivo un po’ come lui.
Furio soffriva di una malattia vigliacca: il suo timo continuava a crescere anziché atrofizzarsi, arrivando così a schiacciare gli organi interni. Per la prima volta riuscii a tenerlo in braccio in una copertina di lana poco più grande di lui e nei suoi ultimi sguardi, con il respiro affannato, i suoi occhi rassegnati sembravano chiedersi e chiedermi se tutta quella acrimonia nella sua vita avesse avuto senso. Voleva scusarsi di essere stato così ostile e difficile. E proprio in quell’istante sentii riecheggiare nella mia testa le parole di un famosissimo psicobestiologo: “É una concezione vanagloriosa quella di credere che le emozioni umane debbano fungere da pietra di paragone per quelle degli altri animali!” Stavo forse proiettando su Furio ragionamenti ed emozioni proprie della nostra specie? Non lo sapremo mai, mai entreremo nella testa di Furio guardando il mondo attraverso quei due piccoli spilli.