Prima di tutto chi sono gli Ju/’hoansi? Una popolazione residente nella Namibia nord-orientale e nella regione nord-occidentale del deserto del Kalahari in Botswana. Recenti analisi genomiche suggeriscono che gli Ju/’hoansi e i loro antenati hanno vissuto ininterrottamente nell’Africa meridionale da poco dopo che i moderni H sapiens vi si sono stabiliti, molto probabilmente circa 200.000 anni fa. Le analisi del tasso di mutazione del genoma poi indicano che il gruppo più ampio da cui discendono gli Ju/’hoansi, i Khoisan, non solo era la popolazione più numerosa di H sapiens, ma anche che non ha nemmeno subito cali demografici della stessa misura di altre popolazioni negli ultimi 100.000 anni.
Se a questo quadro aggiungiamo alcuni ritrovamenti archeologici in tutta l’Africa meridionale capiamo che gli elementi chiave della cultura materiale degli Ju/’hoansi risalgono ad almeno 70.000 anni fa e forse molto prima.
Cosa ci hanno insegnato gli Ju/’hoansi: Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, la popolazione degli Ju/’hoansi poteva ancora cacciare e raccogliere liberamente, e alcuni studi condotti su questa popolazione da un giovane antropologo canadese, Richard Borshay Lee, nel 1964, capovolsero alcune convinzioni sui cacciatori raccoglitori. Fino ad allora si credeva che i cacciatori-raccoglitori avessero sopportato una lotta quasi costante contro la fame e che con l’avvento dell’agricoltura avessero iniziato a liberarsi dalla capricciosa tirannia della natura. Invece, non funzionava così.
Con una serie di semplici analisi economiche di input/output, Richard Borshay Lee mise in evidenza che la popolazione degli Ju/’hoansi non solo si guadagnava da vivere con la caccia e la raccolta, ma era anche ben nutrita e contenta.
Ben nutriti con poco: la sua ricerca rivelò che gli Ju/’hoansi riuscivano a nutrirsi adeguatamente con poco più di 15 ore di lavoro a settimana. Sulla base di questa scoperta, l’antropologo Marshall Sahlins in Stone Age Economics (1972) ribattezzò i cacciatori-raccoglitori “la società opulenta originaria”.
In particolare questi studi hanno rivelato che gli Ju/’hoansi: erano in grado di vivere bene in un ambiente povero perché si preoccupavano poco della proprietà privata e, soprattutto, erano “ferocemente egualitari”. Infatti gli Ju/’hoansi non avevano strutture di leadership e nessuna gerarchia formale: uomini e donne godevano di pari poteri decisionali, i bambini giocavano a giochi per lo più non competitivi, in gruppi di età mista, e agli anziani, sebbene trattati con grande affetto, non veniva concesso alcuno status o privilegio speciale.
Il “feroce egualitarismo” degli Ju/’hoansi garantiva la loro ricchezza: questo perché l’egualitarismo impediva a chiunque di accumulare ricchezza e, allo stesso tempo, consentiva di distribuire le limitate risorse attraverso le comunità, così che in tempi di scarsità tutti potessero ottenere i beni necessari.
L’egualitarismo u/’hoansi non è il comunismo: non c’era alcun manifesto del “comunismo primitivo”. Anzi si tratta del risultato ottenuto dalle interazioni tra persone che agivano esplicitamente nel proprio interesse personale in una società altamente individualistica.
Come sfruttare al meglio l’invidia: tra i foraggiatori Ju/’hoansi, l’interesse personale era sempre sorvegliato dalla sua ombra, l’invidia. L’invidia assicurava che tutti ricevessero sempre una giusta quota di risorse, e che coloro che avevano il carisma naturale e l’autorità per “guidare” la caccia, li esercitassero con grande circospezione. Nella sostanza chi ciacciava di più veniva insultato.
Il cacciatore responsabile di una buona caccia era festeggiato e insultato, mai lusingato: indipendentemente dalle dimensioni o dalle condizioni del bottino della caccia?, coloro che avevano diritto a una parte della carne si lamentano che l’uccisione era insignificante, che non valeva la pena di portarla all’accampamento o che non ci sarebbe stata abbastanza carne per tutti.
L’insulto era un modo per non perturbare l’equilibrio: non che quei cacciatori non conoscessero la differenza tra una piccola preda e una grande, anzi, proprio questa consapevolezza li rendeva vigili su un aspetto non secondario della caccia: il rischio che un cacciatore particolarmente abile potesse considerare gli altri come loro debitori, fratturando così il delicato equilibrio egualitario che sosteneva la vita della banda (o di un piccolo gruppo di parenti). Gli insulti quindi assicuravano che i singoli cacciatori facessero attenzione a non avere così tanto successo da distinguersi o, peggio ancora, iniziare a immaginare di essere più importanti degli altri.
Un uomo Ju/’hoansi diede a Lee una spiegazione particolarmente eloquente di questo: quando un giovane fa una buona caccia e porta tanta carne, arriva a pensare d’essere un capo o a un uomo importante, e pensa al resto di noi come ai suoi servi o subordinati. Non possiamo accettare questo. Quindi parliamo sempre della sua carne come se fosse senza valore. In questo modo raffreddiamo il suo cuore e lo rendiamo gentile.
Più insulti per tutti: questo genere di prese in giro non era riservato solo ai buoni cacciatori. Veniva riservato a chiunque si vantasse, diventasse troppo grande per i suoi sandali di cuoio o si imbattesse in una manna di qualche tipo. E chiunque fosse visto come egoista, magari perché accumulava tabacco o cibo, doveva aspettarsi una raffica di insulti.
Dunque, tutti i membri della comunità sono sotto osservazione: tutti esaminano tutti. Si prende attentamente nota di ciò che gli altri mangiavano, di ciò che gli altri possedevano, di ciò che gli altri ricevevano o davano in regalo e se erano o meno sufficientemente generosi in cambio. E il più delle volte tutti facevano di tutto per evitare di essere individuati per egoismo o presunzione. Non sorprende che ciò creasse un’atmosfera armoniosa e che veniva fatta a pezzi solo raramente quando qualcuno si sentiva offeso.
Altri strumenti per mantenere l’egualitarismo. Uno era la “condivisione della domanda”. Laddove di solito consideriamo maleducazione che gli altri chiedano senza vergogna qualcosa che possediamo, o si aspettino semplicemente di riceverla, i Ju/’hoansi lo consideravano normale. Negare la richiesta di qualcuno comportava il rischio di essere sanzionati per egoismo. La condivisione della domanda non portava a un “tutti contro tutti” che finiva per minare ogni senso di proprietà privata. Al contrario, le richieste di cose erano solitamente attentamente considerate. Il risultato di ciò era che, mentre la proprietà privata era rispettata – dopotutto, se non c’è proprietà privata, come potresti provare piacere nel fare o ricevere un regalo? – le disuguaglianze materiali venivano rapidamente appianate.
E ora? Il feroce egualitarismo che ha giovato a loro e ai loro antenati, oggi, che molti Ju/’hoansi lavorano come manodopera a basso costo, quel feroce egualitarismo rappresenta una sfida. Gli Ju/’hoansi sono di gran lunga i più poveri e marginalizzati tra le numerose comunità etniche distinte della Namibia: difatti, sono restii a scegliere uno qualsiasi dei loro pari come leader, e anzi coloro che ne assumono il ruolo lo fanno spesso con riluttanza, sapendo che saranno attentamente esaminati e talvolta criticati ferocemente. Di conseguenza, rimangono disperatamente sottorappresentati nelle istituzioni statali con il risultato che i loro interessi sono spesso trascurati e ignorati.
Aggiungiamo poi il fatto che molti Ju/’hoansi sono riluttanti ad assumere ruoli di gestione o ad assumersi responsabilità che richiedono di prendere e imporre le proprie decisioni o autorità sugli altri.
Anche l’invidia ha cambiato faccia. Oggi, che la disuguaglianza è più grande che mai, l’invidia è ancora la causa principale dei conflitti tra i Ju/’hoansi. Ma siccome alcuni hanno un lavoro o l’accesso a risorse, come le pensioni, ed altri no, e anche se la comunità crede ancora alle buone maniere, e con grande umiltà fanno di tutto per evitare di dare agli altri motivo di sentirsi offesi, l’invidia è ancora presente ma ha cambiato faccia: non è più motore di equa distribuzione, è solo classica e nota invidia e gelosia.
.
Se l’invidia ha svolto un ruolo costruttivo nelle società di bande su piccola scala come gli Ju/’hoansi, è più difficile stabilire se abbia uno scopo altrettanto benefico in società più complesse e gerarchiche, quelle agricole insomma.
Vista la crescente diseguaglianza mondiale, accompagnata comunque da un’elevata e diffusa crescita del tenore di vita, non resta che studiare altre forme di organizzazione di vita, per capire come eravamo e come mutando l’ambiente siamo cambiati. Magari troveremo un modo moderno per mettere a frutto l’invidia e trasformare un mondo ingiusto in più giusto, visto e considerato che l’invidia ha sostenuto il feroce egualitarismo tipico delle società di cacciatori-raccoglitori e che a sua volta ha garantito che i nostri antenati prosperassero per un periodo di tempo così straordinariamente lungo, molto più lungo di quello che probabilmente riusciremo a guadagnare per noi per prossimi secoli.
Fonte: https://aeon.co/essays/why-inequality-bothers-people-more-than-poverty
*James Suzman (Johannesburg, 1970), antropologo, attualmente dirige Anthropos Ltd., una piattaforma che applica i metodi antropologici alla soluzione delle problematiche sociali ed economiche contemporanee. Scrive per The New York Times, The Observer, The Guardian e The Independent. Nel 2017 ha pubblicato il saggio Affluence without Abundance e nel 2020 Work: A History of How We Spend Our Time, portato in Italia dal Saggiatore (Lavoro, 2021), con la traduzione di Marco Cupellaro.