La mela – si dice – è il frutto prediletto dell’uomo, capace di confortare i primi abitanti della terra e poi di accompagnarli, dalla preistoria sino ai giorni nostri. È un frutto sexy, molto salutare da sempre associato alle vicende dell’umanità. Dove c’è la mela, ci siamo noi.
L’origine del melo? Si perde nella notte dei tempi – così si dice. Il grande e sfortunato genetista Vavilov (1887-1943) morì in carcere sotto Stalin, circoscrisse il centro di origine del melo al Kazakistan, attorno alla cui capitale Alma Ata. Un nome pieno di assonanze che però significa appunto “Padre delle mele”. Anche oggi, attorno a questo luogo esistono estesi boschi di meli selvatici. Negli anni ’80 ci sono stati altri studi. Poi nel 2010 si è sequenziato il genoma del melo e pare che ci siano stati altri centri di diffusione, lassù in alto, nelle regioni montuose dell’Asia Centrale.
Era davvero la notte dei tempi: a considerare i resti, cioè gli spettri pollinici, si risale al Terziario, un’ampia era geologica (si parte da 65 milioni di anni fa, insomma c’erano le mele e i dinosauri). Ma è soprattutto per il Neolitico che si hanno i reperti più numerosi e importanti, soprattutto in 4 siti di Italia, Francia, Svizzera e Svezia.
Qui sono stati ritrovati semi di Melo non carbonizzati. Oppure calchi di semi di Melo su vasellame di coccio, trovati a Windmill Hill (Inghilterra). E ancora mele carbonizzate selvatiche, a Bodman (Germania). Che tra l’altro era molto piccola, per esempio quella ritrovata nei in villaggi palafitticoli neolitici a stento superava i 3 cm, ancora più piccole quelle ritrovate a Bornholm (Danimarca), una dimensione compresa tra i 15 e i 21 mm. In Italia? Qui residui carbonizzati di mele vennero ritrovati nel Parmense, nelle palafitte della Lombardia, della Savoia fino in Svizzera. Se ne faceva grande uso, si tagliavano le mele a metà si essiccavano e si consumavano durante l’inverno o si costruivano collane con gli spicchi di mele, un gioco che pure i ragazzi di qualche decennio fa facevano.
Domanda: il territorio di origine del Melo era circondata dall’Himalaya e da lì fino al Mediterraneo la strada è lunga e tanto impervia. Come è arrivata fin da noi?
Al principio erano gli orsi. Mangiavano le mele e mangiando le sceglievano quindi le selezionavano, più grandi, più saporite e poi disseminavano i semi via via che si spostavano. E poi grazie agli eserciti che si sono spostati in India in Persia e poi da lì nel bacino mediterraneo. Metti anche i carovanieri che viaggiavano attraverso la Via della Seta, ottomila chilometri di strada, dalla Cina all’Occidente e poi tutte le strade portano a Roma.
Nel via vai si seguiva la stessa dinamica degli orsi, gli uomini camminavano, mangiavano mele, le sceglievano e abbandonavano deiezioni con i semi durante le tappe: comunque portavano idee e nuovi meli.
Ma cosa è diventata la mela per noi? Sicuro ha accompagnato la nostra storia. Basta pensare alle leggende, si sprecano: ovviamente Eva, anche se probabilmente non era un mela, poi Ercole, con la sua undicesima fatica, sottrae al drago dalle cento teste, per non parlare degli dèi dell’Olimpo che mangiavano mele per recuperare la gioventù e per non invecchiare. Paride la mela ad Afrodite. E Biancaneve, Guglielmo Tell e Newton, tutti questi hanno avuto a che fare con le mele,
Per non parlare del Simposio. E lì che Aristofane, usando una mela come esempio, racconta la sua ipotesi sull’amore: all’inizio l’uomo era perfetto, bastava a sé stesso ed era felice 4 gambe e 4 braccia e riusciva a utilizzare tutti gli 8 arti per muoversi, e pure 2 volti, quindi panoramica visiva a 360 gradi. Erano individui perfetti e felici, cosa che fece parecchio innervosire Zeus, geloso della loro perfezione, tagliò a metà la mela perfetta e così dall’androgino derivarono maschi e femmine. Da quel giorno l’uomo ha iniziato a cercare disperatamente la sua metà, perché senza di lei egli si sentiva incompleto, infelice.
Ora alcuni paesaggi italiani di montagna e pianura sono addobbati con le mele. C’è chi va in Giappone a vedere i ciliegi in fiore ma bellissimi e suggestivi sono anche gli italianissimi meleti in fiore. Basta spostarsi un poco, senza nemmeno organizzare un viaggio lungo. Sono spettacolari i meleti in fiore del Trentino-Alto Adige (si coltiva la mela Golden), del Piemonte (con la mela rossa) alcune pianure dell’Emilia Romagna (lì c’è la Fuji, la classica mela da pianura) e quelle Lombardia.
Ma all’inizio non è stato facile coltivare il melo. Durante il primo periodo della dominazione romana i fruttiferi venivano coltivati nell’hortus, cioè in una piccola proprietà contadina, solo per autoconsumo. Oppure, nel periodo successivo, gli alberi da melo avevano un effetto ornamentale, insieme ad altre piante creavano una sorta di effetto paradiso terrestre. I meleti inselvatichiti si sono rintanati nei boschi. Nemmeno con Carlo Magno cambiò la situazione, anche se il re in persona voleva venissero coltivati nei suoi possedimenti anche meli a frutti dolci, profumati, acidi e di lunga conservazione.
Gli arabi ci hanno provato in Sicilia, ma della penisola e per tutto lungo periodo del medioevo, la coltura del melo era patrimonio dei monaci con i loro orti, circondati dalle mura dei monasteri. Non va bene né durante il Rinascimento. Era l’epoca dei giardini della bellezza, cioè giardini dei frutti. E tuttavia a parte che si introdussero specie esotiche, ma il melo dovette fare i conti con gli agrumi.
Dobbiamo aspettare la metà dell’Ottocento per vedere rifiorire il melo. Si stava meglio e si cominciava a chiedere la frutta. In quegli anni c’era frutteti promiscui, tutti insieme e poi le piante venivano innestate su portinnesti molto vigorosi, dovevano vivere a lungo e superare i 50 anni di età perché questo si lasciavano sviluppare liberamente: era il paesaggio delle melicoltura estensiva, durato fino a pochi decenni orsono: chi l’ha visto se lo ricorda.
Oggi la quasi totalità dei raccolti proviene da sistemi frutticoli intensivi. Niente di male, bisogna soddisfare una richiesta di oltre 2 milioni di tonnellate e poi c’è l’esportazione. Per questo i sistemi si sono razionalizzati, i meli più bassi e le piante disposte in lunghi filari, e siccome gli areali melicoli italiani più significativi si trovano sull’Arco Alpino, potete osservare una singolare unione, tra la geometria del meleti – le lunghe linee rette degli impianti – e l’orografia articolata delle valli. Se ci andate, in qualunque stagione dell’anno fateci caso, alle sfumature dei meleti.
È stato un lungo cammino, tormentato, non sempre con lo stesso passo, comunque uomini e mele si sono scambiati storie, aneddoti, simboli e cure varie. Una cosa a oggi è certa, dobbiamo recuperare la biodiversità, quella sempre. E allora, siccome abbiamo cominciato con un viaggio, finiamo con un consiglio di viaggio. In diversi contesti montani ci sono numerose passeggiate tra i meleti, si chiamano itinerari della biodiversità, una maniera di riprender e il cammino con le mele e visto che ci siamo assaggiare frutti con caratteri di genuinità, salubrità, sapori e profumi non convenzionali.
E poi è un modo per tornare indietro nel tempo, ma solo per poggiare i piedi per terra e fare un bel salto in avanti.