“Ho afferrato il fucile da caccia che ho portato in casa da quando ci dormo da sola, l’ho caricato con le cartucce da trentadue grammi (calibro 12) e sono scesa al fossato per vedere cosa stava succedendo”. Così si presenta Sara, la protagonista del libro Non pensarci due volte di Arjuna Cecchetti (archeologo preistorico, scrittore e poeta), edito da Dalia Edizioni.
Sara ha 13 anni e in questa frase racconta già tanto di sé. Perché nonostante la tenera età si ritrova completamente sola, ma imbraccia il fucile non per difendere se stessa ma per fare giustizia a due ragazze rapite da due malviventi (da lei chiamati i fessi). Poi, sistemata la faccenda, se ne va, non vuole vederli i carabinieri che verranno (lei teme) a prenderla, per lei sarebbe uno spettacolo troppo pietoso. Quindi inizia il suo viaggio, da sola, e si addentra nella selva oscura, come tutti quelli che decidono di prendersi la responsabilità del proprio destino e di pagare il prezzo per questa scelta. Sara si avvia lungo le parti più selvagge e meno esplorate dell’appennino italiano in compagnia di se stessa, di tutto quello che sa e sa fare per sopravvivere in mezzo alla natura selvaggia, sua intima amica, ma non nel senso romantico, quanto nel senso più primordiale: penetra nei boschi, naviga torrenti e fiumi (con una canoa bucata che ha rattoppato con materiali di fortuna, e ogni tanto deve svuotare), caccia e pesca con maestria e senza pietà le sue prede, (aveva imparato con il papà), piega la natura alle sue esigenze e si rifugia in vecchie capanne e ne costruisce alcune da sola, scala montagne, attraversa villaggi, ogni tanto si avvicina a delle persone, si nutre di un qualche calore umano, poi prosegue per la sua strada.
La voce di Sara è la straordinaria protagonista di questo libro. E’ l’elemento che anima (e ritma benissimo) tutta la storia, perché Sara parla continuamente con se stessa, si spiega e ci spiega tutto quello che fa e che pensa, e questo invece che annoiare esalta e conquista pagina dopo pagina, perché la sua voce è piena di ironia quanto di sincerità, sa far ridere, emozionare e commuovere fino allo struggimento. Perché il suo parlare con sé è il modo che Sara ha di farsi compagnia, di auto consolarsi e sostenersi contro la dura solitudine. Cosa altro può servire a una voce per farsi riconoscere come autentica?

La storia di Sara non ha nulla di fiabesco (e neanche di retorico), né nei fatti né nei toni. Sara è sola perché la sua mamma è morta per una malattia e suo padre è finito il prigione, ma lei non è una ragazzina molle né tanto meno romantica (“è di colore rosa e questo non lo posso sopportare” dice quando deve scegliere lo zaino per il suo viaggio), è in grado di combattere una notte intera contro un branco di lupi e sopportare la fame per giorni. Ma Sara è grandissima e piccolissima insieme, e mano a mano che prosegue il suo viaggio ci svela il suo dolore, attraverso i ricordi che le salgono alla mente, con il paesaggio e il luoghi che si fanno pezzi della storia di famiglia e fungono da tappe mentali più che geografiche: “ho questo ricordo mentre salgo la montagna lungo il vecchio sentiero e non lo so nemmeno perché ce l’ho ma ci sono un mucchio di storie dentro la mia testa e ogni tanto ne esce fuori una e vattelappesca perché”.
Il tema della solitudine di Sara ha una dimensione individuale e una collettiva. Sara, come spiega l’autore in un’intervista, è una persona ai margini: è un’ immigrata (viene dalla Bosnia), vive in un piccolo villaggio dell’appennino italiano dove spesso, nelle migliori delle ipotesi, le persone come lei possono rimanere invisibili, o, come nel suo caso, esser ritenute troppo diverse.
Dove sta andando Sara? Nel suo viaggio la protagonista del romanzo compie un doppio movimento: fugge dal dolore causatogli dalla perdita dei genitori, quindi da casa e dal suo paese ostile, ma al contempo cerca disperatamente una nuova casa dove essere accolta, proprio come il giovane Holden, e proprio come Holden viene per questo additata come pazza (nel libro infatti la gente la crede affetta da un disturbo mentale). Ma Sara è intelligente proprio perché è consapevole dei suoi moti interni: “devo fermare gli ingranaggi del mio cervello”…. “” mi odio”…”Ho il coraggio di andare avanti con questa fuga ma non ho il coraggio di prendere un autobus”…”Non è combinare guai quello che voglio. Voglio indietro la mamma e voglio indietro anche papà col suo stare sempre zitto. Li rivorrei indietro così com’erano senza i guai”. E se a un certo punto decide di raggiungere la nonna a Sarajevo, nel suo percorso fa tappa in diverse “case”, dove ogni volta trova qualcuno che le offre un aiuto, un conforto. Sara a un certo punto incontra anche l’amore, scopre il desiderio.
La domanda che scorre lungo la narrazione non è se Sara aggiungerà o no la nonna a Sarajevo, se il padre tornerà o no, o se i carabinieri la troveranno (non è proprio un romanzo di avventura) ma è: cosa vincerà? Il desiderio di Sara di farcela fino in fondo da sola ed evitare il rischio di nuove fregature (“così mi sembra evidente che sia arrivato il momento di andarmene”) o il suo desiderio di trovare un posto dove stare (“penso che dovrei accettare la cosa o almeno farlo in superficie”…“Per gran parte della sera penso sul serio che la soluzione migliore sia tornare indietro.”)?
Trovare una risposta potrebbe anche non essere una cosa necessaria, l’abbiamo detto, questa non è una fiaba e neanche un romanzo di formazione in senso classico, perché il suo personaggio sfugge a percorsi normalizzanti: in Sara tutto è così amalgamato, vibrante, disperato e eroico insieme, in una parola: vivo; tutto è fatto di carne, è tangibile, sensibile, in una parola: fisico. Ed è questo il punto, è il corpo l’elemento attraverso cui si muove la storia. Il corpo di Sara e il corpo della natura, che sono un tutt’uno. Perché il ritorno dentro la natura cui ci spinge questo libro, è funzionale al ritorno al nostro corpo, l’unico capace di essere integrato e non scisso, capace di portare con sé tutto il nostro bagaglio emotivo, fatto di coraggio, paure, dolori, desideri. Senza mentire.