Diario di una molecola psicoattiva, scritto da Cristina Nori e pubblicato da Sui Generis editore, è un librino piccolo, che pone immediatamente due questioni, molto diverse tra loro. La prima attiene alla narratologia, e riguarda il punto di vista. La seconda è meno teorica, ed è legata al ruolo della chimica nella cura dei disturbi nevrotici o psicotici, quindi ha a che fare con il dolore umano.
Il libro di Cristina Nori, che segna il suo esordio letterario (nasce come blog), fonde queste due questioni lontane tra loro. Come?
Per quanto riguarda il punto di vista, la voce narrante delle varie storie raccontate nel libro è la chimica, la medicina, in gocce o pastiglie, che i personaggi assumono, l’insieme di quelle sostanze che introducono nel corpo per stare meglio (problemi di ansia, depressione, ossessioni, insonnie, altro).
La medicina ci narra i fatti in prima persona, e si autodefinisce sin dall’inizio, come a voler chiarire le cose, “una molecola, una scia chimica, un’associazione di atomi creata dagli uomini per alleviare i loro problemi”, e poi ancora un inviato nel nostro corpo, che viaggia nelle nostre vene, un passeggero, sì, ecco, proprio come The Passenger, Iggy Pop che – ci ricorda – “viaggiava quasi ogni giorno sui treni di Berlino” (…) “e la vita gli si imprimeva nei suoi occhi socchiusi” (…)” genitori, ladri, coppie in crisi, zingari” (…) “lui studiava queste persone e un giorno le ha fatte diventare musica e parole”.
Che tipo di storie incontra e racconta il passeggero? E in che ruolo si pone?
Ecco la seconda questione, noi e la cura della nostra mente attraverso la chimica.
Le storie raccontate dalla molecola psicoattiva, che ci tiene più volte a precisare che è “priva di sentimenti ed emozioni” ed è per questo riesce a osservare gli umani “con grande attenzione”, sono legate non a casi eccezionali, grandi storie di smarrimento prima e salvezza o non salvezza poi. Non ci sono finali, a lieto o brutto fine. Ci sono delle umanissime fotografie, come quelle di una ragazzina che si vergogna di dire a scuola che i suoi genitori sono divorziati, e quando le chiedono di portare una foto di suo padre porta una foto di Clint Eastwood; o quella di una ragazza che non riesce a emanciparsi dai condizionamenti della famiglia, e che quando inizia a essere libera, la prima cosa che fa è comprarsi una chitarra, segnarsi a un corso, pensando che la prima cosa che vuole è suonare Lady Jane. Poi ci sono storie di rabbia, che svelano il lato b di questo sentimento che è sempre il dolore, storie di amori fragili, di voci interne ossessive.
In tutto questo la molecola si rende partecipe, oltre che testimone, e si ha la sensazione che, per quanto lei ci abbia più volte precisato che è “priva di sentimenti ed emozioni” la sentiamo complice dei personaggi e del loro dolore. Cosa può significare questo? Che è difficile costruire un punto di vista davvero asettico, come quello di una scia chimica? Può essere, ma forse qui la questione è anche un’altra, se si vuole fare un passo ulteriore nella riflessione: la questione è il ruolo che ha l’aspetto umano della cura, che sia chimica o solo legata alla parola. Aspetto umano sia di chi cura sia di chi viene curato, perché alla base c’è sempre una relazione, una mossa soggettiva, anche se aiutata dalla chimica.
E infine c’è pure una colonna sonora
A segnare le storie, a renderle caratteristiche e vive, c’è poi quell’elemento magico che è la musica: non c’è solo Iggy Pop che viaggia nelle vene come il passeggiero, ma dentro le varie brevi storie si incontrato le canzoni dei Cure, gli Smith, Caparezza, gli Smashing Pumpkins, i Rolling Stone.
Insomma il libro tende a una precisa cifra stilistica, tratteggiata anche dalle scelte musicali. Sul sito edizionisuigeneris.it c’è la playlist completa.