Il libro Contare le sedie, di Ester Armanino (Einaudi), si apre con un incipit che suona come un manifesto: sto per non essere carina, dice la protagonista. E non è solo l’incipit del primo dei trentasei brevi pannelli (alcuni brevissimi) che strutturano il libro, ma, appunto, un presupposto di tutto il suo svolgimento: la protagonista non si sta preoccupando di essere carina. Si sta preoccupando evidentemente di altro. Di cosa?
Nel libro troviamo le storie della bambina, dell’adolescente, poi della donna, gli amori adolescenziali, quelli adulti, gli amici, le figure genitoriali. La bambina la cui prima parola è stata betoniera, e a cui piacciono i negozi di ferramenta dove tutto sembra possa essere svitato e riavvitato, quindi messo a posto; la ragazza che diventa architetto, dirige i cantieri edili di cui ama le parole (crena, cuffa, frattazzo, pennellessa), i suoni concreti (calpestare calcinacci) e gli operai, che saranno sempre quanto di più famigliare c’è per lei; e ancora la donna, che sceglie rapporti sentimentali dove la felicità, per tutti e due, è soprattutto fuori dal rapporto: per lei è avere una casa tutta sua e, ancora, i cantieri.
Così, quello che si srotola in un percorso non cronologico (a confermare il fatto che le vicende della nostra vita prendono la forma della nostra memoria) è un’esposizione sentimentale che procedere per piccole rappresentazioni, trentasei mini storie che hanno un filo conduttore sottilissimo, da intercettare non nei fatti, non in una trama schietta, ma nello sguardo e nella postura che nel tempo la protagonista assume nei confronti della vita, con un continuo oscillare tra l’aprirsi e il chiudersi all’altro, e prove di collage tra passato e presente. Movimenti minimi, manovre attente.
Il primo elemento che quindi emerge è l’ambivalenza, anche esplicitata quando la protagonista dei vari racconti (che sembra chiaramente essere una e una sola) parla della sua “vera me” che a volte si alterna con l’altra, e la narrazione passa dalla prima alla terza persona. Parlando di una delle sue relazioni sentimentali, dice: “preferivo non portare ai nostri incontri anche la vera me; di sicuro qualcosa l’avrebbe irritata”.
Ma il gioco dell’ambivalenza messo in scena da Ester Armanino, l’essenza frammentata e non ordinata dell’io della protagonista, come quella del libro intero, non si giocano, per una volta, sul conflitto: per una volta l’inquietudine non si mette in scena con la rabbia contro qualcuno che ci ha tolto qualcosa, che sia un padre, una madre, un uomo, o un intero patriarcato, non ci sono vecchi fantasmi e nuovi mostri narcisistici o abbandonici da abbattere (anche la lingua è pulita da ogni inutile orpello stilistico che fungerebbe da elemento di copertura). E in effetti, sempre nell’incipit, dice: “non sto per essere carina, ma non sarò sgarbata non sarò elusiva, non sarò collerica”.
Cosa c’è allora?
Innanzitutto c’è il dolore. A fare da sfondo costante del percorso sentimentale del libro troviamo la ferita della perdita della madre, figura che compare tra un frammento e l’altro del libro, a testimoniare la sua presenza inossidabile nella vita della protagonista. Leggendo il libro si capisce che madre e figlia sono state grandi complici e amiche allegre (è la madre che ha incoraggiato la figlia alla scrittura, comprandole la prima macchina da scrivere, una Olivetti che odorava di ferro e inchiostro). La madre verrà a mancare, piano piano, per una malattia, e la figlia è vicino a lei fino all’ultimo, vivendo quel lento e intermittente percorso della separazione come seduta dentro una sala d’attesa, sperando che il tempo non cammini troppo veloce, cercando di ingannarlo, fermarlo, anche con un gioco (era la vera me?) come quello che si faceva da piccoli, a contare le sedie girandoci intorno in gruppo cercando di non perdere il posto (da questo gioco il titolo del libro).
Anche il rapporto con il padre è un rapporto fondato, come quello con la madre, su una complicità luminosa e il risucchio della nostalgia. Pietre è un fotogramma carveriano in cui la protagonista e il padre vivono la loro unione sulla base di gesti fisici, mentre costruiscono insieme un pavimento, mettendo in terra una a una le grosse pietre che hanno scelto insieme, finché non cala la sera e va via la luce. “Posare le pietre: mio padre ed io prevediamo le mosse dell’altro per facilitarne i compiti, sembra che abbiamo fatto questo da sempre. E poi “perché non ammetterlo per una volta? Ogni uomo che incontrerò dovrà scontare la colpa di non essere come lui”. Ecco che anche qui il passato invade il presente, le sue scelte, orienta ancora i sentimenti della protagonista. La protagonista porta suo padre nel lavoro di architetto, nell’amore per i negozi di ferramenta, nei cantieri, e in quello che cerca negli uomini.
La perdita e la continua presa di confidenza con il mostro della separazione sono i sentimenti che in modo trasversale attraversano tutte le storie del libro, tutti rapporti della protagonista, che dice: “nella vita finora ho perso un po’ di cose. Due anelli, qualche uomo, diverse volte la speranza, per non parlare delle coincidenze. Non mi chiedo mai che fine abbiano fatto, o meglio: so che gli anelli si trovano in qualche parte in fondo al mare, che gli uomini sono felicemente sposati, che la speranza va e viene come tutto ciò che è fondamentale in questo mondo, e che dopo passa sempre un altro treno”.
D’altronde questo viaggio la protagonista lo fa in solitaria, con una contabilità emotiva tutta sua, privata, individuale. Mancano ad esempio anche le figure delle amiche, che nelle narrazioni contemporanee abbiamo preso atto essere più importanti degli uomini per la felicità delle donna. Lei prende le misure da sola.
Ecco che tutti i rapporti che vengono ritratti nel libro sono segnati dall’alternanza vicinanza/distanza, contatto/distacco (sarebbe proprio questo l’equilibrio perfetto, la formula della felicità nelle coppie, secondo gli psicologi), movimento che fa pensare a quello delle onde del mare, che vanno e vengono, il mare a cui l’autrice, di Genova, dove è ambientato i libro, è tanto legata. L’onda che va e viene, aprire e chiudere: a un uomo che le fa un regalo impegnativo lei dice “Non posso accettare”, non senza aver valutato i pro e i contro: se accetta prende la via dell’abbondanza, se rifiuta la vita sarà più ossuta e tempestata di rinunce. E poi decide: “Quindi poi accetto, ma con riserva”.
Ecco cosa intende fare la protagonista: accettare ma con riserva. Questo è un caposaldo della fine dell’amore romantico? E’ una reazione alla ferita? E se invece fosse, finalmente, adultità? “A me piacciono le frequenze basse”, dice a un certo punto. Non essere carina, non essere sgarbata. Non compiacere, non configgere. Piuttosto, (cosa ambiziosa), essere coerente con la propria incertezza, quindi essere onesta e chiara, mettendo sul tavolo tutte le sue parti. Accettare ma con riserva. Come quando una sera, che un amico le ha preparato il pane usando la sua pasta madre, lei, una volta rimasta sola, si porta quel pane caldo dentro il letto.