Così, in generale e per iniziare, come stanno le foreste nel mondo? Aumentano? Diminuiscono, e lo stato di salute?
Vorrei ci fosse una singola risposta che correttamente descrivesse la situazione globale delle foreste…
Purtroppo…
Purtroppo, anche per quanto riguarda questo argomento, il mondo va avanti a diverse velocità, nonostante l’uso delle risorse forestali sia spesso globalizzato. Anzi, la globalizzazione ha aumentato la disparità dello stato delle foreste nel mondo, a causa di nazioni economicamente forti che sfruttano le risorse di paesi meno avanzati. Quindi, alla domanda: “come stanno le foreste?” posso solo rispondere: dipende.
Ok, occupiamoci di questo…Dipende da?
Dipende dal tipo di foresta, dalla nazione e dipende se guardiamo solo all’aspetto quantitativo o anche a quello qualitativo. L’unica cosa certa è che a livello globale mediamente perdiamo circa lo 0.12% di terre boschive all’ anno, il che equivale a dire perdiamo il 2.5% ogni 20 anni. Tale numero tiene in considerazione sia tagli che rimboschimenti. Questo calcolo però deve essere qualificato attentamente.
Cioè?
Ad esempio, la perdita di foresta pluviale è mediamente 3 volte più veloce che la perdita di foreste temperate; quindi, si stima che ogni 20 anni si perda almeno il 7% delle foreste pluviali, che, come sappiamo, sono essenziali regolatrici del clima sia a livello regionale che globale. Il problema è che le funzioni di questi mega ecosistemi terrestri non decrescono linearmente, ma una volta al di sotto di una certa soglia di emergenza, le funzioni cessano e cessa anche la capacità rigenerativa della foresta. Se poi il tasso di deforestazione accelerasse, nei prossimi 20 anni si potrebbero perdere il 20% di foreste pluviali, e questo potrebbe portarci al di sotto della soglia di funzionamento ecosistemico.
E invece dove c’è maggior benessere?
Nei paesi più avanzati, invece, l’opposto sta succedendo che negli ultimi 60 anni si è misurato un certo incremento delle superfici boschive, quindi viviamo un chiaro paradosso nel quale i paesi ricchi proteggono le loro risorse forestali ma continuano a distanza a sfruttare le risorse altrui. Il tasso di deforestazione può essere anche 20 volte più veloce in paesi in via di sviluppo che in paesi industrializzati, questo significa che in certi paesi potrebbero scomparire il 40% delle foreste in 20 anni. Inoltre, globalmente, l’uso di risorse lontane costa perché’ deve essere considerato anche il costo energetico del trasporto, spesso intercontinentale, del legname. È la domanda generata dai paesi ricchi che spinge lo sfruttamento eccessivo delle foreste globali, ma questo spesso viene taciuto quando si puntano le dita contro Brasile, Indonesia e simili. Vorrei anche chiarire che qualità e quantità non vanno a pari passo e vorrei proprio usare l’Italia per due di tre esempi validi a livello mondiale.
Spiega…
In Italia, dopo le deforestazioni legate ai due conflitti mondiali e ai disastri idrogeologici del 1966, una politica di massiccio rimboschimento ‘e stata abbracciata. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il rimboschimento ha seguito delle regole dettate da parametri produttivi, spesso transalpini, in cui l’incremento di massa legnosa era valutato molto di più che non la biodiversità. Questo è avvenuto nonostante la biodiversità stessa fosse storicamente integrata nell’ uso diversificato delle foreste e dei suoi prodotti da parte di comunità locali.
Fammi esempi.
La creazione di monocolture di abete rosso, spesso sfruttate con taglio a raso (invece del famoso taglio cadorino dove solo certi individui vengono tagliati) dove la biodiversità è minima e lo è pure la resilienza. Nel 2018, la tempesta Vaia nel nordest ha facilmente sradicato più di 15 milioni di abeti rossi che, a causa delle radici poco profonde e della crescita in foreste coetanee ed alberi equidistanti, sono caduti assiemi a causa di un enorme effetto domino. Quindi si’, e vero in Italia ci sono più foreste ora che cento anni fa, ma una gran parte di esse sono altamente artificiali e quindi funzionalmente sotto standard.
Ci sono altri motivi di abbandono?
Un altro motivo di degrado qualitativo delle foreste, sia in Italia che in altri paesi industrializzati è l’abbandono. Qui possiamo fare un distinguo tra l’emisfero occidentale (le Americhe) e quello orientale. In Europa, Nordafrica Medio Oriente e parti dell’Asia l’utilizzazione delle foreste iniziò a pari passo con l’agricoltura sedentaria. In certe zone, si è raggiunto un certo equilibrio in cui il pascolo, l’agricoltura montana, l’uso delle risorse forestali erano regolate proprio sulla base delle necessità delle comunità e dalla produttività dei siti. Il segreto del successo millenario di questa gestione stava proprio nell’accudire alle diverse risorse e mantenerle.
E poi…
E poi con la industrializzazione, l’abbandono delle foreste ha accelerato; i pascoli abbandonati, i cedui non potati, le foreste non diradate hanno creato una situazione di degrado che ha reso le foreste locali molto sensibili a malattie emergenti e ad insetti invasivi, sia nativi che esotici. Nell’America del Nord, invece, l’abbandono non è stato tanto da parte di comunità locali (sebbene ci sia stato un abbandono generalizzato da parte di popolazioni indigene nel XIX secolo), ma c’è stato un abbandono della gestione attiva delle foreste spinto anche in questo caso dalla disponibilità di legname da altre nazioni. Senza tagli di diradamento e con l’esclusione degli incendi, le foreste del Nord America sono diventate dense e dominate da specie altamente combustibili. L’alta densità e la grande massa legnosa creano una situazione veramente esplosiva: ecco che in California il 90% delle perdite forestali sono dovute ad incendi di enormi dimensioni e alla diffusione di malattie infettive ed insetti. Le poche foreste Nordamericane ancora gestite per la produzione di legname, risultano invece essere più resilienti. Sia in Europa che in Nord America, una gestione attiva delle foreste secondarie (cioè già precedentemente utilizzate) anche in parte a scopi produttivi di legname, renderebbe le foreste più resilienti.
Immagino che non sia finita qui…
Sì, il terzo esempio di cambiamento qualitativo delle foreste viene invece dall’emisfero meridionale e dal sud dell’Asia. Qui, zone una volta coperte da foreste naturali vengono trasformate in piantagioni intensive usando specie esotiche quali Acacia e Eucalitti ad altissimo tasso di accrescimento. Queste piantagioni vengono equiparate e foreste anche nelle statistiche globali. In realtà, queste piantagioni non sono sostenibili, e spesso i suoli tropicali con piantagioni intensive di alberi si inaridiscono, e i grandi tassi di accrescimento e di sequestro del carbonio, sventolati come un merito della conversione a piantagione intensive (che quindi spesso vengono finanziate anche con l’aiuto di sovvenzioni internazionali) svaniscono. Le comunità locali devono migrare e le piantagioni hanno anche un effetto più insidioso: permettono a patogeni che sono rari nelle foreste adiacenti di moltiplicarsi rapidamente, sia per vicinanza fisica delle piante nelle piantagioni, sia perché’ geneticamente le piante sono cloni geneticamente identici. Questi patogeni “amplificati” diventano un’insidia per altre piantagioni, riducendo ulteriormente la loro produttività, e potenzialmente potrebbero diventare un pericolo anche per alberi in foreste naturali.
Bel casino…
Concludo con il sottolineare due pensieri. Uno: le foreste degradate lo sono spesso irreversibilmente. Ad esempio, i milioni di abeti rossi sradicati dalla tempesta Vaia hanno innescato il più grande attacco a memoria d’uomo di bostrico, un insetto letale solo per l’abete rosso, ma che solitamente attacca primariamente piante abbattute o piante stressate. Il riscaldamento climatico degli ultimi tre anni ha creato una situazione di stress, rendendo milioni di piante ancora in piedi suscettibili al bostrico. Ora si pensa che il bostrico potrà uccidere più di dieci milioni di piante. Il ritorno a monocolture di abete rosso e praticamente impossibile ora.
Due?
Due: è vero che foreste vergini o semi vergini sono invece resilienti anche al cambiamento climatico e sono enormi scrigni di biodiversità. È nostro dovere gestire attivamente le foreste secondarie, evitare la conversione di foreste a piantagioni intensive e proteggere le foreste primarie. Recenti articoli hanno dimostrato che le foreste vergini sia tropicali che temperate, una volta degradate non tornano più allo stato iniziale anche se abbandonate a sé stesse per decenni: quindi l’unica opzione e di preservarle così come sono.
Allora, per riassumere, mi sembra che tutta la nostra vita graviti attorno a un paradosso, se siamo più ricchi abbiamo più possibilità di gestire le foreste, ma quelli che sono più poveri hanno la tendenza a sfruttare le foreste (anche per noi) e spesso lo fanno con la speranza di diventare ricchi e dunque più capaci di gestire le foreste, in fondo l’ambientalismo è frutto di società avanzate. Ti volevo chiedere, la tua esperienza conferma questo paradosso? Lo può descrivere ed indicare con qualche esempio alcune soluzioni?
Ho due esempi in testa, uno sullo sfruttamento inconsiderato delle risorse forestali in maniera del tutto non sostenibile, e uno sui “comportamenti” ad alto rischio dell’industria nel confronto dell’ambiente. Tutti e due sono legati all’esistenza di un mercato globale, che come abbiamo già chiarito prima, è fondamentalmente iniquo. In entrambi i casi, quell’ambientalismo che non è alla moda, ma che nasce da millenni di esperienza, viene spazzato via, fortemente limitando la possibilità’ di mantenere fruibili quelle risorse forestali rinnovabili note alle comunità locali.
Andiamo col primo esempio.
Il primo esempio riguarda la creazione di piantagione intensive in Vietnam, finanziate dall’economia cinese. Queste piantagioni vedono gli alberi, tutti esotici, piantati in zone di foresta secondaria e tagliati ogni sette anni (per dare un termine confronto, gli abeti rossi alpini vengono tagliati dopo un secolo). Nei terreni tropicali, la fertilità di un bosco non sta nel suolo, come nelle zone temperate, ma proprio nella biomassa legnosa, quindi, quando le piante vengono tagliate ed utilizzate per produrre truciolati o carta, se ne va la fertilità. Dopo la quarta rotazione, il suolo diventa pressoché sterile, ma questo non importa perché le compagnie spostano le piantagioni intensive in una valle limitrofa, lasciandosi dietro una vallata inaridita che non potrà più tornare a quella che era in passato. Le compagnie cinesi creano tutta una infrastruttura (serre per crescere la piantine, segherie per lavorare il legno, comunità di alloggio per i residenti) per rendere vantaggiosa l’operazione economica, e questi vantaggi vengono molto apprezzati dalle comunità locali, ma nel giro di 30 anni le comunità sono obbligate a spostarsi altrove o a vivere in condizioni di degrado, visto che le pratiche agroforestali millenarie sono molto difficili in zone che hanno sostenuto piantagioni per soli tre decenni. Le compagnie, in maniera geniale, mettono le segherie alla confluenza di molteplici vallate, cosi’ da poterle usufruire quando le attività si spostando da valle a valle. Le popolazioni locali hanno benefici temporanei ma a lungo tempo perdono quelle risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nella foresta per millenni. Come discusso sopra molto spesso il degrado delle foreste è purtroppo irreversibile.
Prima di andare con secondo esempio mi spieghi bene perché c’è questa differenza tra la fertilità di un bosco in un terreno temperato e la stessa fertilità in una zona tropicale? Uno potrebbe dire: sempre terra è.
Vedi, cadi nell’errore più banale di definire la terra in maniera riduttiva. In realtà, la terra, dalla quale per altro dipende la vita sul pianeta (bisogna sottolinearlo) è un universo a parte ancora in parte sconosciuto. C’è la parte minerale (quella che forse è la terra alla quale la gente pensa) cioè la matrice…”the Matrix”, ma poi tutto dipende da quello che c’è fra le particelle minerali della matrice, cioè i nutrienti, la sostanza organica ed i microorganismi (centinaia di migliaia di specie). In zone temperate, i nutrienti e la parte organica (solitamente la parte superiore del suolo con le foglie, aghi, funghi e insetti) risiedono nel suolo per lungo tempo, quindi restano disponibili anche se le piante vengono tagliate, Nelle zone tropicali, a causa del clima e dell’attività più veloce dei microbi, i nutrienti e la parte organica vengono letteralmente solubilizzati nell’acqua e o vengono persi o vengono assunti dalle piante. Quindi, quando togliamo le piante in zone tropicali, togliamo la maggior parte dei nutrienti visto che il suolo non li può trattenere.
Il secondo esempio?
Il secondo esempio riguarda invece il commercio globale di piante ornamentali, quindi di piante non necessarie alla sussistenza. L’industria è negli Stati Uniti la seconda nel campo agricolo per profitti ed ‘e quindi dotata di molto potere politico. Il modello operativo Nord Americano è simile a quello Europeo e si basa su tre principi:
Quali sono?
1- E’ più vantaggioso crescere la quasi totalità delle piante in zone calde (California Florida o Sud Europa) e poi muoverle nell’ intero continente in primavera.
2- L’industria spinge la vendita di piante esotiche che provengono da altri parti del mondo.
3- Quantità è più importante della qualità e spesso le piante vengono vendute già infette da patogeni, o per lo meno non ci sono rigidi controlli fitosanitari interni per assicurarsi le piante siano sane
Ottimo…e dunque?
Nell’anno 2000 ero appena stato assunto come esperto universitario della salute delle foreste californiane, e feci la scoperta terrificante che un microbo letale era stato introdotto in California tramite la vendita di piante ornamentali infette. Il problema è che il patogeno, fino ad allora sconosciuto alla scienza, non si era limitato a invadere giardini ma era arrivato nelle foreste naturali iniziando la malattia nota come Sudden Oak Death (morte rapida delle querce) che ad oggi ha ucciso più di 100 milioni di alberi e ne ha infettato più di 200 milioni in un raggio di quasi 1000 chilometri. Mi trovai davanti ad un problema anche esistenziale: l’industria vivaistica ornamentale non ha nulla a che fare con la gestione delle foreste, ma era stata la causa del più grande disastro ambientale a colpire le foreste della California. Quindi gli interessi economici di una industria avevano distrutto la foresta di tutti, incluse popolazioni locali native che da essa ottengono in parte il loro sostentamento.
Bel dilemma, soluzione?
Una soluzione, almeno parziale c’era, ma l’industria si opponeva. Si doveva creare un test clinico per dimostrare che le piante in vendita non fossero portatrici della malattia e bisognava sostituirlo al test usato che si basavo solo sull’apparenza della pianta, ignorando che molte piante infette sono completamente asintomatiche. Il mio laboratorio a UC Berkeley nel 2001 ideò il primo tampone molecolare (PCR) per la Sudden Oak Death e dopo molte lotte politiche, il tampone fu reso obbligatorio negli USA, e poi nel resto del mondo. Si tratta del primo tampone mai usato per legge, ben prima di quelli per il Covid.
Ha funzionato, vero?
L’uso del tampone ha permesso di individuare centinaia di migliaia di piante infette e di distruggerle, ovviamente con un costo notevole per l’industria, alla quale, altrettanto ovviamente, non sto molto simpatico. Ma il costo sulle foreste della introduzione di un patogeno quale quello che ha causato la Sudden Oak Death è incalcolabile: la maggior parte delle piante Californiane non ha resistenza perché non ha mai incontrato questo microbo precedentemente, e tutte le specie di piante che crescono nelle foreste della costa della California sono più o meno suscettibili.
Ma col senno del poi, si poteva impedire tutto questo?
La realtà e che il tutto si poteva prevenire utilizzando dei modelli produttivi che escludano l’uso di piante ornamentali esotiche e che impongano di crescere le piante localmente. Ma questo modello costa di più ed è quindi non grato all’industria. Decine di specie di mammiferi, centinaia di uccelli, migliaia di specie di insetti e funghi stanno scomparendo li dove le querce muoiono. Io sono anche micologo, ed una delle conseguenze più immediate della malattia è stata la scomparsa di fungi eduli che crescono in simbiosi con le querce. Tra questi c’è il matsutake ambitissimo nei mercati giapponesi e venduto fino a 5000 euro al chilo. Visto che la produzione è in ribasso a causa della morte delle querce, sia le comunità native indigene che quelle di raccoglitori stagionali di origine asiatica si trovano a dover dividere un bottino molto più esiguo. Inoltre, le foreste secche per la malattia bruciano velocissime e le querce malate cadono sulle case. Insomma, questo enorme sconvolgimento irreparabile è nato proprio a causa di una forzata globalizzazione e di un comportamento ad alto rischio di una industria, quella vivaistica, che non ha legami storici con quella delle gestioni forestali. Ci si domanda se il conto per le spese legate alla malattia che sta avendo un impatto su tutti i Californiani, non debba essere pagato da tale industria.
Il degrado delle foreste non aiuta nessuno
Infatti, un ultimo punto che si ricollega all’ inizio della nostra conversazione parlando di foreste degradate, e inaspettato, è stata la scoperta che la malattia si sta diffondendo molto più velocemente in foreste degradate dall’abbandono e ad alta densità: quindi noi uomini siamo responsabili due volte per questa crisi. La prima per aver creato un ambiente degradato, la seconda per aver introdotto un patogeno letale a causa di comportamenti rischiosi. Ci vogliono nuovi modelli gestionali ed industriali meno rischiosi e dobbiamo usare pienamente gli strumenti delle nuove tecnologie e dobbiamo rivalutare i benefici di una gestione attiva delle foreste. L’abbandono infatti porta al degrado delle foreste con conseguenze imprevedibili come nel caso della Sudden Oak Death.
Senti a proposito di industria vivaistica, ti vorrei portare in Italia, in Salento. Che mi dici della Xylella?
Mi viene in mente subito “Cronaca di una morte annunciata” di Marquez, sia per la morale, sia per i luoghi polverosi e bellissimi dove le due storie, quella dell’ulivo e quella di Santiago, si svolgono.
Andiamo…
La Xylella è l’ultima delle malattie di alberi introdotte in Europa da altrove, introduzioni tutte legate allo spostamento intercontinentale di piante, semi o legno. Pensiamo al cancro del castagno, al cancro del cipresso, al mal dell’inchiostro del castagno, alla grafiosi dell’olmo, solo per citare alcuni esempi. I risultati di quasi tutte queste introduzioni sono stati pesanti, spesso con estinzioni locali delle specie di alberi colpite. Quando poi la malattia è trasmessa da insetti, il problema si fa veramente serio (pensiamo alle malattie umane). So che ci sono state recriminazioni di ritardi nelle notificazioni da parte degli scienziati, e questo è inaccettabile, ma devo anche dire che anche se le notificazioni fossero state tempestive, questo non significa che il problema sarebbe stato risolto.
Spiega?
Storicamente, nessuna introduzione di patogeni di alberi è mai stata controllata, quindi non penso che questo caso sarebbe stato diverso vista la biologia del patogeno che può infettare più di 500 specie di piante oltre all’olivo e la epidemiologia della malattia che coinvolge la trasmissione da parte di diversi insetti. Come le altre malattie esotiche, questa sembrerebbe essere stata introdotta tramite una pianta di caffè infetta. Visto che non penso, nonostante il riscaldamento climatico, che l’Italia voglia diventare un produttore di caffè, mi infuria questa cosa che movimento inutili di piante vengano permessi. A rischio c’è veramente la biodiversità degli ulivi. Facendo un po’ di ricerca uno scopre che l’Italia ha una delle più grandi ricchezze di varietà di olivi del mondo; mi preoccupa puntare tutto su una sola varietà (la Fabulosa più resistente alla malattia) perché’ un domani magari potremmo scoprire che tale varietà e la più suscettibile al cambiamento climatico. Inoltre, la nostra ricchezza culturale dipende ed è interconnessa con le diversità dei prodotti agricoli quali formaggi, vino, olive, quindi perdere la diversità delle colture dignifica perdere parte della nostra cultura. Come saprai il controllo della Xylella prevede tagliare piante sane: questo e veramente necessario ed è stato tentato altrove ad esempio per arginare il cancro degli agrumi (Citrus Canker) in Florida con poco successo e lo stiamo anche tentando in California con la Sudden Oak Death, ma ‘e difficile convincere i proprietari a tagliare alberi sani. In Italia c’è ‘un’altra malattia esotica di alberi che sta facendo danni significativi sia agli ecosistemi che all’identità nazionale.
Sì, riguarda i Pini, vero?
Sì, in questo caso il patogeno proviene dagli USA e sta uccidendo i nostri iconici pini domestici, quelli della cartolina del golfo di Posillipo, per intenderci, dei grandi parchi Romani e dell’Appia antica. La storia della sua introduzione e veramente fantastica e ci riporta ad un periodo buio per l’Italia durante la seconda guerra=mondiale. Questa malattia, a differenza di quella causa dalla Xylella, si potrebbe contenere con uno sforzo realistico. Se vuoi ti racconto come la storia di questo patogeno e la storia della mia famiglia siano indissolubilmente uniti.
Vai.
Nel 2003, mi fu chiesto da un collega, mio ex studente ed amico di Torino, il Prof. Paolo Gonthier di aiutarlo su una problematica di grande rilevanza. I pini domestici nella tenuta presidenziale di Castelporziano stavano morendo in grandi numeri e non se ne capiva la causa. Paolo aveva trovato evidenza della presenza di un marciume radicale, conosciuto come Heterobasidion annosum, ma in Italia non si era mai visto questo fungo patogeno uccidere così tanti pini. Spedi’ i campioni a Berkeley, dove una mia studentessa, Rachel Linzer, stava studiando l’evoluzione delle diverse specie di Heterobasidion che infettano i pini, incluso H. annosum. Due mesi più tardi Rachel venne nel mio ufficio e mi disse che i campioni di Castelporziano non appartenevano alla specie europea di Heterobasidion (H. annosum), ma che il DNA indicava chiaramente che i campioni appartenevano alla specie americana, cioe’ Heterobasidion irregulare. Mi ricordo che seduta stante la sgridai…
Perché?
La spiegazione più semplice era che avesse confuso i campioni o li avesse mescolati con quelli americani. Le chiesi di rifare le analisi da capo. Un mese dopo tornò’ trionfante e confermò che i campioni appartenevano effettivamente alla specie americana. Avvisai i colleghi italiani, ma decisi anche di non pubblicare i risultati subito perché erano abbastanza difficili da spiegare, visto che la tenuta di Castelporziano apparteneva prima ai papi poi ai Savoia, ed è sempre stata chiusa al pubblico. La mia famiglia mi venne in aiuto. Mio padre nacque nel 1923 e alla fine della seconda guerra mondiale la sua famiglia aveva offerto la casa avita a Treviso alle truppe alleate che lì vi avevano stabilito il quartiere generale del Nordest. Lì conobbe un soldato americano che divenne poi mio zio e facilitò l’emigrazione di parte della mia famiglia negli USA. Quel soldato era sbarcato ad Anzio e si era fermato a Castelporziano dove la 92ma divisione della quinta armata aveva rotto le mura e si era accampata vicino al castello per circa tre settimane nel giugno del 1944. Quando accidentalmente raccontai della inspiegabile scoperta a mio padre, lui mi disse che gli americani, durante la liberazione dell’Italia dai nazisti, si erano fermati a Castelporziano. Improvvisamente c’era una spiegazione plausibile, cioè che le truppe americane avessero trasportato questo patogeno. Comunicai questa possibile modalità di introduzione ai colleghi italiani, i quali si recarono a Casteporziano, dove un custode, bambino nel 1944, raccontò che quando le truppe americane partirono da Castelporziano abbandonarono una pila di casse, latrine ed altro materiale tutto fatto in legno. Il custode, puntò con le dita e affermò che la catasta di legname era sta abbandonata proprio li vicino a tutti quei pini morti…….
Di quante cose possiamo essere responsabili anche se non lo sappiamo…
Scrivemmo l’articolo che fu pubblicato in meno di un mese. La scoperta fu pubblicizzata su tutti i giornali scientifici, incluso Nature, e su molte riviste divulgative e sui quotidiani europei, incluso Bild Zeitung e il London Times. Si trattava del primo articolo in assoluto che dimostrava in maniera convincente il movimento a lunga distanza di un patogeno durante operazioni militari. Negli USA invece, le cose andarono diversamente.
Cioè?
I repubblicani montarono una vera e propria campagna contro di me, dicendo che facevo ricerca antiamericana (ricordati che sono americano di cittadinanza). Una sera due macchine blindate spedite dalla Università mi vennero a prendere per portarmi in un luogo sicuro finche’ gli spiriti non si fossero calmati. Nonostante tutto, un anno dopo, l’esercito americano mi convocò per chiedermi dei consigli su un programma di ricerca che volevano iniziare per monitorare il trasporto di microbi dall’esercito: fu un’enorme soddisfazione.
Ad oggi?
Al giorno d’oggi il patogeno americano si e’ diffuso in quasi tutte le pinete laziali di pino domestico ed è un agente di quarantena per l’unione europea. Abbiamo pubblicato diversi articoli che dimostrano che la specie americana contagia i pini molto più facilmente di quella europea e sta sostituendo il fungo nativo. Gli europei sono preoccupati perché a Nord delle Alpi, i pini sono praticamente onnipresenti e molto importanti economicamente. Per gli italiani, si tratta di un colpo ad un simbolo della cultura e delle cucina italiana ( pensate ai pinoli) oltre che ad un disastro ecologico e ci ricorda dell’importanza di evitare o minimizzare il movimento a grande distanza di piante, frutti, legno.
Dicevi che questa malattia si potrebbe controllare, come?
L’Heterobasidion irregulare si diffonde tramite spore disperse nell’aria, ma non a lunga distanza, e si stabilisce in nuovi boschi tramite l’infezione di ceppaie recentemente create con il taglio dei pini. La ricerca del mio laboratorio, insieme a quello di Torino e di altre Universita’ italiane, ci ha permesso di delineare in maniera precisala zona di infestazione (ancora tutta nel Lazio). Per rallentare l’ulteriore diffusione della malattia, basterebbe proibire il movimento di legname di pino dal Lazio o al di fuori della zona di infestazione (non una gran cosa perche’ il Lazio non e’ un gran produttore di tale tipo di legname) e trattare le ceppaie con un prodotto chimico o con prodotti alternativi biologici. In entrambi casi il trattamento e’ semplice: basta spruzzare il prodotto sulla ceppaia, non appena si sia tagliato l’albero. Quindi bisogna che i servizi fitosanitari italiani si attivino, (cosa che non mi sembra sia ancora avvenuta in pieno), visto che queste informazioni sono state pubblicate gia’ da un decennio. Vorrei aggiungere che sono a rischio non solo i paesi centro e nordeuropei, ma anche la zona alpina italiana.
Un’ultima domanda, le piante in città? Se ne parla molto come sai, per varie ragioni, hai indicazioni in proposito?
Le foreste sono sistemi complessi, antichissimi e dotati di una loro “volontà propria”. Precedono l’uomo e sono coinvolte in processi globali che sono essenziali per la sopravvivenza del pianeta e dell’umanità e che prescindono dai servizi e dai beni che forniscono all’uomo. I conglomerati urbani rappresentano l’antitesi alle foreste e nel nostro immaginario, le foreste si trovano in luoghi remoti e lontani dalle città. Negli ultimi anni è emerso il concetto di foresta urbana: si tratta di un importante ecosistema ibrido realizzato in ambienti urbani o in prossimità di essi e costituito da alberi piantati e/o sopravvissuti allo sviluppo urbano. Per le comunità urbane, le foreste urbane rappresentano un ecosistema in grado di fornire servizi essenziali in parte simili a quelli offerti dalle foreste. Inoltre, è stato scientificamente provato che le persone che abitano in città più verdi sono più felici e conducono una vita più salubre.
Vero.
Le foreste urbane rappresentano un compromesso meraviglioso e democratico per migliorare la vita delle popolazioni urbane. Oltre ai benefici che portano, i boschi urbani offrono la opportunità di far conoscere a molti la bellezza delle piante e di educare i cittadini sul ruolo vitale che esse hanno nella sopravvivenza del pianeta e nel benessere dell’umanità La foresta urbana ha un triplice effetto: aiuta a mitigare il cambiamento climatico, crea un ambiente piacevole per vivere ed infine può ispirare i giovani a studiare le foreste e a proteggerle. Quando ero ancora studente a Berkeley, conobbi l’ecologo Joe McBride che divenne uno dei miei professori. La seguente è una sua frase che in breve dice tutto:
“La foresta urbana è una benedizione per chi vive in città. Gli alberi delle foreste urbane svolgono numerose funzioni e offrono ai nostri figli l’opportunità di trarre i primi insegnamenti sulla natura. Inoltre, con la loro semplice presenza, sono in grado di risollevarci d’animo.”
Detto questo, le foreste urbane sono anche un punto debole e spesso permettono ad insetti e patogeni esotici di stabilirsi in una nuova regione del mondo. Pensiamo al punteruolo rosso che sta devastando le palme cittadine, o al cancro del platano. Purtroppo, a differenza del nostro immaginario, le foreste urbane e quelle naturali spesso sono limitrofe, e questa vicinanza può portare alla diffusione di agenti esotici dalla città alle foreste. Ma le foreste urbane sono anche deboli perché fortemente soggette al cambiamento climatico. Non sono un esperto di foreste urbane, ma ho notato una certa mancanza di comunicazione tra chi studia le foreste e chi progetta le foreste urbane. In una mia recente ispezione a San Francisco, una città con parchi enormi, ho constatato più di venti specie di alberi esotici in un quarto di ettaro, tutti piantati recentemente. Mi è stato detto che “così almeno una sopravvivrà”…
Che si può fare?
Possiamo fare di meglio. Consultandoci, condividendo i risultati di ricerca recente, finanziando ricerca sull’argomento, evitando i rischi di introdurre microbi esotici piantando alberi esotici. Anche se le foreste del futuro, urbane e non, dovranno necessariamente essere diverse da quelle del presente, potrebbero avere delle affinità con quelle del passato. Ci sono alberi multisecolari che sono sopravvissuti a mini glaciazioni e a fasi calde. Mi rivedo dieci anni fa a ballare in circolo con un gruppo di residenti, sussurrando all’unisono canti propiziatori attorno a “Old Mighty” (Vecchio Possente), infettato dalla Morte Rapida delle Querce. Old Mighty ha più di 800 anni, ed uso il presente perché e ancora vivo. Ad oggi, ammetto che non so se sia stato il trattamento di endoterapia scoperto da me o il canto propiziatorio a salvare questo meraviglioso albero. Sono uno scienziato, ma sono anche convinto che una lotta così impari, come quella del riscaldamento globale e delle pandemie infettive, richieda scienza fatta con il cuore. Inoltre, e qui concludo, siamo in uno stato di emergenza e presto dovremo prioritizzare gli interventi: la scelta delle priorità deve avvenire ascoltando anche le diverse comunità locali, che parlano sia con il cuore che con la testa, e che spesso preservano una memoria del passato non sempre disponibile nei documenti storici ufficiali.