Ci sono figure antiche di cui spesso ascolto le gesta, come i capipopolo, ma chi erano?
Erano quelli che negli anni Cinquanta avevano insegnato agli altri contadini la lezione di Di Vittorio sulla “coppola”. «Vi dovete togliere il vizio della coppola!» dicevano. Nel linguaggio popolare lucano, al termine “vizio” non si attribuisce il significato opposto di “virtù”. “Vizio” è piuttosto sinonimo di “abitudine”. I contadini da sempre ripetevano il gesto di togliersi il copricapo, sia quando volevano essere cortesi nei confronti di un’altra persona, sia in segno di sottomissione. I capipopolo avevano spiegato loro la differenza tra soggezione e subalternità da una parte, civismo e buona educazione dall’altra. E su questa loro funzione educativa avevano edificato la propria reputazione.
Senti ma c’era allora (parliamo degli anni ’50) tra i contadini il gusto della cultura?
I contadini mettevano il vestito della festa quando andavano agli incontri tecnici. Ho impresso nella memoria il fervore di quegli anni per la sperimentazione e l’innovazione. C’era nelle famiglie contadine che non erano emigrate, una forte volontà di migliorare le proprie condizioni. In quegli anni, alcuni giovani che tornavano dalle università portavano con sé la voglia di sperimentare modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori. Per essi, gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana – dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy – si sarebbero potuti integrare con le opportunità che solo i territori rurali erano in grado di offrire. Chi non ha mitizzato questi tentativi, ma ha dedicato ad essi impegno e studio, è riuscito a creare imprese che ancora oggi si confrontano con il mercato.
Credi ci sia un vuoto culturale, intorno alla recente storia agricola?
Oggi il termine “contadino” è tornato in voga tra gruppi di giovani e meno giovani affascinati dal mito dell’agricoltura “di una volta”. Il motivo di questo revival è uno solo: si è cancellata la memoria delle tristi condizioni di vita dei contadini. Alla storia è subentrato il mito. Pasolini ha sicuramente contribuito più di altri esponenti della cultura italiana a creare una percezione sbagliata del passaggio dall’antico mondo contadino alla società industriale. Per lui la civiltà contadina aveva rappresentato l’età dell’oro. Mentre la modernità costituiva l’esito di una mutazione antropologica dei contadini. Questa visione reazionaria e pauperistica è oggi rappresentata dall’ambientalismo radicale che persegue un integralismo naturalistico speculare all’integralismo antropologico. Una visione del tutto indifferente ai gravi problemi dell’umanità. Perché il diritto della natura al rispetto non si afferma abbassando la guardia sui diritti individuali e costringendo le persone a tornare all’antico vizio di togliersi la coppola. Non si tutela l’ambiente attribuendo personalità giuridica a fiumi e monti, come pure è accaduto, ma al contrario integrando uomo e natura all’interno dello stesso concetto di vita. Tutto questo è perché manca ancora una storia sociale delle campagne italiane. Quando si scriverà questa storia si potrà chiarire che agricoltura e natura non sono mai coincise: i paesaggi agrari pianeggianti, sono in buona parte il risultato di un secolare lavorio di umane generazioni che le hanno strappate alle acque. Le pianure meridionali sono state letteralmente create con prosciugamenti, strade, abitazioni, opere di civiltà. Per secoli la malaria ha disegnato il profilo di gran parte della penisola, rappresentando uno dei pochi tratti comuni di un paese attraversato da differenze profonde. C’è voluto un enorme impegno di risorse pubbliche e private per riorganizzare il territorio e renderlo dappertutto vivibile. E oggi occorrerebbe continuare quel percorso con poderose politiche di difesa e manutenzione del suolo.