Uno dei più bei romanzi usciti questo anno –spero vinca tutti i premi- è il libro di Daniele Rielli, Il Fuoco Invisibile– storia umana di un disastro naturale (Rizzoli). Daniele utilizzando tutti gli strumenti che un romanzo mette a disposizione, staccandoci dalla cronaca spicciola, racconta in modo esemplare il caso Xylella e le storie che attorno a questa patologia vegetale gravitano. Abbiamo fatto due chiacchiere.
Il tuo libro amplia e integra e approfondisce un tuo reportage uscito sull’internazionale, ecco mi chiedevo, quando ha cominciato a occuparti della questione Xylella qual era lo scenario che avevi davanti?
Dunque, prima di tutto il libro è completamente diverso dal reportage uscito su Internazionale, ritornano solo 2-3 scene su 300 pagine, e la poetica è volutamente differente.
Spiega…
In un primo momento avevo effettivamente pensato di ampliare quel reportage poi però mi sono reso conto che quell’approccio di cronaca, ironico e a tratti sarcastico, che nel 2015 mi era stato dettato dalla rabbia e dallo stupore che provavo di fronte a quello che stava accadendo, non andava affatto bene per un libro. Serviva più pietas, più rispetto per il dramma umano e per le vite delle persone che negli anni successivi si sono aperte con me raccontandomi come è stato per loro attraversare quella tempesta perfetta che è stata ed è l’epidemia. Serviva in una parola, più letteratura e meno giornalismo, pur al netto del fatto che tutto quello che appare nel libro è vero ed è frutto di lunghe ricerche e di più di 100 ore di interviste. Per questo ho scritto una sorta di romanzo del reale dove tutti i personaggi sono veri, un libro che riparte completamente da zero e questo mi ha permesso, tra le altre cose, di entrare anche più nel profondo del rapporto della mia famiglia con gli alberi di ulivo, una questione centrale che prima avevo solo sfiorato.
I tuoi familiari hanno patito gli eventi?
Per mio padre perdere gli ulivi che aveva ereditato da suo padre e da suo nonno è stato un dramma senza uguali, cercare di farne sopravvivere almeno qualcuno – alberi comunque oggi ridotti a dei fantasmi rispetto a quello che erano prima della malattia – è diventata un’ossessione. L’unica cosa che ho cercato di mantenere simile al reportage è stato il rigore scientifico sottostante, ovviamente aggiornandolo alle scoperte intercorse nel frattempo, scoperte che comunque non hanno fatto che confermare il quadro originario, quello che al tempo fu ignorato da tutti, o quasi.
Torniamo allo scenario.
E lo scenario era questo: a Gallipoli era arrivato un pericolosissimo patogeno da quarantena che prima di allora non era stato individuato in Europa: xylella fastidiosa. Si tratta di un batterio per il quale non esiste una cura, l’unica cosa che si può fare è tagliare gli alberi infetti per impedire che facciano da base alle infezioni di altri alberi. Questo concetto per lungo tempo in Puglia non è passato né presso la popolazione ne presso le istituzioni, si sono invece diffuse una pluralità di teorie del complotto più o meno deliranti, teorie immaginavano un piano segreto delle multinazionali per sostituire le piante del Salento con piante transgeniche, oppure che delle persone con delle tute anticontaminazione bianche avvelassero le piante di notte, teorie completamente false che sono poi sono state appoggiate da cantanti, attori, comici e celebrità nazionali. Gli stessi ricercatori che avevano scoperto il batterio sono stati indagati per anni dalla magistratura, fra le accuse quelle di aver diffuso loro stessi la malattia. Sono stati archiviati soltanto dopo anni, senza nessuna scusa e senza neppure arrivare al processo. Questo è il quadro a cui mi trovai di fronte allora.
In effetti la questione Xylella è purtroppo un case study. Dal punto di vista tecnico scientifico era tutto chiaro, c’è un batterio che ostruisce i vasi xilematici e provoca disseccamento rapido, e chiara era anche la profilassi: contenimento, abbattimento. Ti chiedo un’opinione da scrittore, come mai si sono diffuse teorie del complotto e cosa hanno provocato?
Le storie complottiste avevano in comune il fatto che dal punto di vista narrativo erano migliori della realtà. La realtà era costituita da un patogeno da quarantena arrivato in un nuovo ecosistema (le campagne attorno a Gallipoli) dall’altro lato del mondo (Costa Rica) perché il traffico globale delle merci non è gestito con le necessarie cautele. È una storia di evoluzione e di dogane europee malfunzionanti, non il massimo dell’intrattenimento e soprattutto non è una storia in grado di indicare un colpevole, non è catartica, non ci dice che eliminato “il grande vecchio” che ha ordito il disastro saremo di nuovo al sicuro.
In effetti…
Le storie complottiste su Xylella assomigliavano invece alla trama di Avatar che, riassunta, è questa: Un popolo autoctono deve difendersi da una multinazionale straniera che vuole distruggere i suoi antichi alberi sacri. C’è un motivo se un film diventa il più grande successo di incassi della storia del cinema, ed è che la sua storia ci colpisce nel profondo, è capace di smuovere qualcosa di intimo e trasversale alle culture umane. Il nostro amore per gli alberi, specie quelli antichi e simbolicamente rilevanti come era ulivo nel Salento, il radicamento in un territorio e la paura di un invasore sono tutte cose che accomunano gli esseri umani nel profondo.
Siamo sempre là, il punto di vista narrativo offre più appigli emotivi
Le teorie del complotto, quindi, erano film migliori delle verità degli scienziati, ma erano false, completamente false. La sfida per me nel realizzare questo libro era scrivere la storia del disastro Xylella in maniera avvincente ma utilizzando solo materiale reale, nulla di inventato o di scientificamente impreciso. Ci sono riuscito soltanto grazie alle tante persone che si sono aperte con me, regalandomi i dettagli intimi di come hanno affrontato questa tempesta perfetta che è stata Xylella in Puglia. Se dall’astrazione si passa alle vite delle persone allora anche la verità diventa di colpo appassionante. Sapevo bene che per reggere l’impatto delle teorie complottiste il mio libro doveva essere una buona storia, con una struttura narrativa solida. Questa volta però doveva anche essere vera.
Senti, oltre all’analisi delle teorie complottiste che nel tuo libro analizzi con molta bravura e da scrittore, in Fuoco Invisibile ci sono anche aspetti storici della coltura dell’Olivio che non sono tanto noti. Gli olivi del Salento in un passato non così remoto servivano per produrre olio lampante.
Durante l’epidemia si diffuse l’idea che gli ulivi fossero nel Salento da sempre come monocultura e che fossero piante “autonome”, in grado di fare tutto da sole. Entrambi sono falsi storici, prima di tutto gli ulivi vanno seguiti, come qualsiasi altra coltivazione, poi la monocultura dell’ulivo nel Salento nasce nel ‘700 con l’economia dell’olio lampante, l’olio che fino all’invenzione dell’elettricità serviva per l’illuminazione pubblica e privata e per scopi industriali. Prima di allora l’ulivo esisteva già nel Salento ma assolutamente non nelle quantità odierne, la maggior parte del territorio era coperto da boschi. Dal ‘700 alla fine dell’800 nel porto di Gallipoli arrivavano navigli da tutta Europa, il Salento era una regione che produceva energia per tutta Europa, le olive venivano molite nei frantoi ipogei, luoghi sotterranei e infernali dove le condizioni di lavoro erano terrificanti. In un capitolo del libro racconto la vita in prima persona di un frantoiano di quel periodo storico. Fu quest’industria molto dura e gestita secondo criteri oligarchici a disboscare il Salento e poi piantare ulivi ovunque, questa verità storica però è stata rimossa da una narrazione completamente inventata che voleva l’ulivo come una pianta spontanea e autosufficiente, espressione dell’estrema benevolenza della natura.
Non è così…
Non è andata così, ma la storia di copertura ha avuto molto successo, anche perché serviva a cancellare il fatto che nel ‘900 gli ulivi del Salento sono stati gradualmente abbandonati perché non si prestavano bene alla produzione di olio extravergine, o meglio potevano fare anche un ottimo olio anche per scopi alimentari, ma con dei costi elevatissimi, per nulla competitivi. Il risultato è stato che all’arrivo di Xylella gli uliveti salentini servivano soprattutto per percepire contributi europei ed erano in stato di abbandono, il che non ha causato la malattia – come è stato spesso detto erroneamente –ma ne ha sicuramente accelerato il decorso.
Scrivendo questo libro (che per fortuna ha più livelli di narrazione) e raccontato le vicende di tante persone, dall’agronomo, allo scienziato, al negazionista, a tuo nonno, all’olivicoltore affranto, della tua famiglia, di te stesso, alla fine cosa hai ricavato da questa storia?
Dal punto di vista “filosofico” ho avuto l’ennesima conferma che il potere delle narrazioni è enorme, lo è sempre stato ma oggi siamo nel pieno di un’infodemia dove praticamente ogni informazione viene processata in forma di storie: non si tratta più di libri e film, anche il marketing, la politica e persino la vita delle persone sconosciute – grazie ai social – vengono comunicate tutte sotto forma di storie. Le storie ci guidano e ci ispirano, il problema si pone quando l’emotività che sono in grado di generare ci porta a chilometri di distanza dalla verità delle cose. È un problema molto più grande di una pur gravissima malattia delle piante, è in un certo senso uno dei problemi principali del nostro tempo: l’emotività generata dalle narrazioni sta cancellando la realtà sottostante, è una condizione pericolosissima.
Il tuo è un romanzo, quindi a livello umano?
A livello invece “umano” sono contento di aver raccontato nel libro vite sconosciute o quasi di persone che però hanno avuto un ruolo nell’epidemia. Sono abbastanza orgoglioso di essere riuscito, ad esempio, a ricostruire come è arrivata nel Salento la bufala della sostanza organica nel terreno (l’idea che gli ulivi seccassero non per il batterio ma per mancanza di sostanza organica nel terreno, appunto), una teoria senza alcun fondamento scientifico che però ebbe grande diffusione e di cui nel libro svelo le origini, piuttosto interessanti. In questa crisi hanno parlato sui media – spesso in maniera imprecisa e talvolta apertamente grottesca – politici, associazioni di categoria e pseudo ambientalisti, mentre nel libro restituisco voce e spessore umano alle figure degli scienziati, dipinti come degli speculatori al soldo delle multinazionali quando la realtà non potrebbe essere più lontana da questa rappresentazione diffamatoria.
Cioè?
Cioè, le loro vite, viste da vicino, sono le vite di persone oneste travolte da un evento kafkiano per la sola colpa di aver fatto, bene, il proprio lavoro. Sono orgoglioso di aver contribuito a ridare loro un po’ della dignità che meritano. Stesso discorso per quegli agricoltori che hanno rischiato in prima persona per cercare una soluzione senza rimanere al palo ad attendere i soldi pubblici come è successo nella maggior parte dei casi. Per molti versi questo è anche un libro sul declino italiano, un tema che da quarantenne italiano mi preoccupa molto, aver messo su carta la ricostruzione di un pezzo esemplare di processo di decadenza, è una piccola consolazione, magari servirà a qualcosa, soprattutto, mi auguro, per i più giovani. Quanto all’aspetto più personale, ovvero il rapporto con la mia famiglia, era ovviamente la questione più delicata e non potrei esprimermi qui, in poche righe, in maniera più chiara rispetto a quanto abbia fatto nel libro, di certo però è stato un modo per indagare, una volta di più, le mie radici e anche questo è un dono che ho ricevuto dal libro.