A proposito di consumi, l’industria conciaria è accusata di pascersi delle spoglie mortali di bovini (buoi tori vacche e vitelli) caprini e ovini, Al comparto tocca una lunga lista di capi di imputazione: eccessivi consumi di acqua, impiego di sostanze chimiche tossiche e di metalli pesanti, ingenti emissioni di anidride carbonica.
Oltre alle pelli i processi di trasformazione conciaria implicano infatti l’uso di altre risorse e durante le lavorazioni si generano reflui, rifiuti ed emissioni in atmosfera.
Tutto ciò rende il settore economico tra quelli maggiormente insostenibili, a braccetto col calzaturiero. La pelle serve per le scarpe, oltre che per borse, abbigliamento, poltrone.
L’industria conciaria italiana conosce la sorte di molti altri ambiti produttivi: non se la passa bene come un tempo ma è ancora un settore in movimento; conta circa 1200 aziende, quasi 17.700 addetti, 5 miliardi di fatturato e contribuisce al 63% del valore della produzione europea di pelli finite. Veneto, Toscana, Lombardia e Campania le regioni dove si concentrano maggiormente le concerie italiane; non poche quelle che si sono attivate per limitare i danni correndo ai ripari, rivendicando in premessa la propria fisiologica vocazione alla circolarità; il dato essenziale sulla filiera di approvvigionamento è che l’abbattimento degli animali da cui le pelli derivano avviene ai soli fini alimentari, e una certificazione attesta la provenienza dei capi da macelli autorizzati che operano per la produzione di carne. La pelle usata nei settori di tessile, calzature e arredo nasce come sottoprodotto, uno scarto che non diventa rifiuto ma viene immesso in altro ciclo produttivo come materia prima. Che le concerie usino animali è fuori discussione. Che se ne compiano stragi solo in nome dei mocassini no.
Quello che non si può ignorare è che l’industria conciaria vive legata a doppio filo a quella alimentare, e questa seconda, imperniata sull’allevamento intensivo, è la principale fonte di immissione di C02 in atmosfera; e questo è un altro paio di maniche, e di scarpe. Ma certo è anche, per ora, che rimpiazzare con succedanei vegetali la pelle nel calzaturiero è meno facile che sostituire l’hamburger con altri fonti proteiche. Non ci addentriamo nella questione insetti insomma, ma per una volta in quella della pelle della frutta; solo Geppetto, che ha insegnato a Pinocchio a mangiare bucce e torsoli, ha egregiamente realizzato un paio di calzature di pane, il resto ancora sono approssimazioni: lo studio tedesco Trend Alternatives for Leather condotto dall’istituto FILK ( Forschungsinstitut für Leder und Kunststoffbahnen) e l’esperienza dei pionieri dimostrano che spesso i materiali promossi come surrogati della pelle oltre a non essere ancora impermeabili, resistenti e duraturi, hanno perlopiù una preponderante presenza di componenti sintetiche: si cerca di essere più sostenibili insomma ma poi si produce di più, si butta di più e si immettono in circolo rifiuti con alto tasso magari di polivinilcloruro e PU. Ma siccome l’industria conciaria è tra i settori dove la ricerca corre, ai ripari, va molto bene provarci e nel medio termine magari riuscirci efficacemente. E intanto? Si applicano correttivi, e qualcuno ottiene risultati che non sono solo passate di vernice verde. E a proposito c’è un malvezzo lessicale che si aggira per l’Italia e si cerca di rintuzzare con gli strumenti normativi: l’uso colloquiale commerciale di eco-pelle, definizione che si appiccica impropriamente a fibre plastiche che di eco(logico) nulla hanno. Il lessico conciario definisce così una pelle vera che non contiene materiale sintetico ma che ha subito un processo di concia a ridotto impatto ambientale. Tutto il resto è finta pelle.
Che poi sono strane le mode. Vestirsi di pelle di animali in origine e in letteratura segna riti di trasformazione e passaggio: per i nativi americani vestirsi con capi d’abbigliamento confezionati con pelli e pellicce era oltre che una necessità un mettersi in comunicazione con l’animale stesso; i norreni diventavano la bestia (in “Northman” è evidente) un po’ come accade ai licantropi. Nelle fiabe, da Pelle D’asino passando per i numerosi eroi imprigionati dentro sembianze di bestie feroci, coprirsi di pelle animale segna una trasformazione e un riscatto.
Saltando per i secoli fino a quello breve spogliate di simboli e mitologie, le pellicce sono state feticcio voluttuario e status symbol fino agli anni Ottanta, care per un attimo anche a John Lennon che sfoggiò quella di Yoko sul tetto della Apple Corp nell’ultima esibizione pubblica dei Beatles; in decadenza da Marina Ripa di Meana in poi, ora il fur torna solo col suffisso eco. Certo è che la pelliccia ha provocato sì ecatombi di animali solo per ragioni fashion: i visoni non ce li siamo mai mangiati, chissà che salti di specie avremmo visto altrimenti. La giacca di pelle invece è sostanzialmente intramontabile, come le cinture e le scarpe che nessuno preferisce di plastica.
E in tema di visoni; la battaglia della LAV ha portato dal 1° gennaio di quest’anno al divieto in Italia di allevamento di animali per la produzione di pellicce, molto impattante a livello ambientale oltre che crudele. Il prossimo passo dell’Iniziativa dei Cittadini Europei “Fur Free Europe” è estendere il divieto dello stesso tipo di allevamento in tutta la UE, unitamente a quello di commerciare (anche importare) nel mercato europeo prodotti di pelliccia. Una firma e li si ferma; qui: www.lav.it/pellicce
L’industria conciaria è all’erta; tutte le imprese hanno nel loro sito una pagina dedicata al tema ambiente; quasi tutte dedicano investimenti a ricerca e innovazione e segnalano adozione di buone pratiche industriali per ridurre l’utilizzo delle risorse e l’impatto associato: lo fanno come singole aziende e in simbiosi industriale specie nell’ambito del recupero e la valorizzazione di scarti e rifiuti e del trattamento dei reflui. UNIC (Unione Nazionale Industria Conciaria) e Euroleather Inc. forniscono rendicontazioni e descrivono processi produttivi monitorati nel tempo attraverso set di indicatori. Per i consumi, in particolare, tre sono quelli considerati: energia, acqua e ausiliari chimici per metro quadro di pelle finita prodotta. Il recupero degli scarti conciari, si legge nel report UNIC, realizza un esempio di bioeconomia circolare. Dalle biomasse organiche che originano dalla lavorazione della pelle si ricavano idrolizzati che possono avere molteplici applicazioni e reimpieghi in agricoltura, alimentare, edilizia, cosmesi, nutriceutica, farmaceutica, cartotecnica.
Tutti gli scarti che si configurano come Sottoprodotti di Origine Animale (SOA) sono valorizzati e recuperati, così come la gran parte dei rifiuti (il 77,4%). La restante quota destinata a smaltimento comprende fanghi e residui di verniciatura, materiali assorbenti, imballaggi contaminati o poli materiale non recuperabili, inerti e poche altre tipologie. Nel 2020 la produzione di rifiuti è stata mediamente di circa 1,46 kg per ogni metro quadro di pelli prodotte (1,10 kg al netto dei liquidi di concia al cromo, inviati a recupero, costituiti per il 95% di acqua). Solo una minima parte dei rifiuti (il 2,4%) è classificata come pericolosa. Si tratta prevalentemente di imballaggi residuati da prodotti chimici pericolosi, oli esausti, morchie di verniciature.
Oggi l’industria tessile e calzaturiera fa i conti come ogni settore con i costi energetici. Di ritorno dalle fiere milanesi di MICAM, MIPEL e LINEAPELLE gli imprenditori parlano di un buon risultato di ordini ma non nascondono perplessità sul futuro. Incontriamo alcuni di loro nel viaggio di ritorno dalla capitale della moda verso il sud delle Marche, dove nel primo semestre del 2022 la crescita dell’export calzaturiero (28,7%) ha superato quella italiana (23,6%). Nonostante ciò, spiega il Presidente della CNA Federmoda di Fermo Paolo Mattiozzi, preoccupano le forti oscillazioni dei prezzi di riferimento delle materie prime che non sappiamo se ci consentiranno di mantenere i listini con cui oggi si firmano gli ordini. E poi la mancanza di personale, che incide sulla capacità di sostenere l’aumento della produzione.
Gli fanno da controcanto la Cgil che lamenta decennale delocalizzazione di fasi produttive di taglio e orlatura e conseguenza perdita di manodopera formata, contrattazione e progettualità che invece non sono così carenti nella meccanica. Un comparto di diversa storia e forza sindacale, di diversissima cultura e meno minacciato dalla competizione globale.
Proprio nelle Marche, tormentata terra di mezzo, nel distretto pelle e calzature fermano maceratese dove anche Mattei mosse i primi passi lavorativi dentro una conceria e il nome della squadra di basket è omaggio all’arte sutoria, c’è la Conceria Nuvolari, società benefit; si occupa di ricerca, produzione e commercializzazione di pelli, e ha come priorità strategica aziendale il rinnovamento dell’attività conciaria per rendere i processi e prodotti più sostenibili.
La Ceo dell’impresa familiare di Monte Urano (Fermo), Sara Santori, racconta che il primo passo è stato togliere prodotti chimici dalla ricetta di concia ed aggiungerne altri, per ottenere una pelle certificata per le sue caratteristiche di metal free, biodegradabilità, compostabilità. Anche nel caso dell’impresa marchigiana la collaborazione con il mondo universitario è fondamentale; nella fattispecie uno studio di Life Cycle assessment condotto con il Politecnico di Milano ha quantificato tutti i potenziali impatti ambientali nel procedimento di concia e portato la Conceria Nuvolari a compensare le emissioni di anidride carbonica sprigionata in fase di produzione rendendo il prodotto carbon neutral dal 2020; questo attraverso progetti di compensazione con Rete clima legati all’implementazione dell’uso dell’ energia eolica e alla forestazione in India. Tutto ciò è appena valso alla Conceria Nuvolari il premio Impatto promosso dal Salone della CSR e dell’innovazione sociale destinato a realtà profit e no profit per progetti di misurazione del valore economico, sociale e ambientale e capacità di condivisione dei risultati ottenuti.
Sara Santori cura il settore sostenibilità anche della Santori Pellami, azienda grossista e produttrice di cuoio e pellami, dove è stata sviluppata una seconda linea di produzione parallela a quella tradizionale, Naturella, basata su sistema ecologico brevettato per trattare la pelle e ottenere un materiale esente da cromo e da metalli pesanti, e completamente biodegradabile. Si tratta di un materiale indicato per moda, accessori e calzature, che garantisce una significativa riduzione dei consumi di acqua rispetto al tradizionale processo di concia, con acque di processo prive di metalli pesanti (tossici e allergenici), comporta la riduzione anche di consumi di coloranti e rifiuti oltre a consentirne la produzione di biodegradabili. Con gli scarti di rasatura del pellame si fanno fertilizzanti: anche quelli biologici dell’impresa toscana Certaldo.
La Toscana: lì concerie, unite in distretti storici, hanno saputo trasformarsi da semplici aziende artigianali in complesse industrie creative; a Sciarada, Castelfranco di Sotto (Pisa), oltre che a dotarsi di ogni tipo di certificazione sociale, di salute e sicurezza del lavoro, tracciabilità delle materie prime, si preoccupano di eliminare il più possibile il cromo, ridurre immissioni di CO2, consumo d’acqua. In collaborazione con l’Università di Bologna stanno mettendo a punto un progetto per usare scarti di produzione per la realizzazione di pavimentazioni antiscivolo e pneumatici; la ricerca li ha già portati, spiega Serena Castellani, un passato da veterinaria e oggi direttrice commerciale di Sciarada, leader mondiale del prodotto scamosciato, a usare gli scarti di lavorazione del camoscio per la produzione di un prodotto a minor impatto ambientale, dimezzando del 50% le emissioni di anidride carbonica, quasi il 40% di prodotti chimici, il 66% d’acqua.
Parlare di distretto del cuoio in Toscana vuol dire parlare di Santa Croce e di depuratore Aquarno che tratta le acque utilizzate dal processo industriali per reimmetterle pulite nei corpi idrici, e soprattutto vuol dire parlare di keu: il materiale inerte utilizzato nei cementifici e nella bitumazione delle strade che si ricava dai fanghi recuperati dalle acque e sottoposti a trattamento termico. Il residuo di produzione derivante dagli scarti della concia dà il nome all’inchiesta avviata oltre un anno fa sullo smaltimento dei rifiuti dal depuratore, la vicenda giudiziaria non è conclusa ma le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze hanno evidenziato deroghe nel funzionamento dell’impianto delle normative ambientali, fanghi sversati nell’alveo del canale dell’Usciana, sforamenti sistematici degli scarichi, traffico di ceneri verso impianti di aggregati in mano a ditte vicine a clan della ‘Ndrangheta, spandimenti di questi aggregati direttamente nell’ambiente o loro impiego come riempimenti nei lavori della Strada Regionale 429 dell’Empoldese Valdelsa. A prescindere dall’esito finale dell’inchiesta e della ripartizione di responsabilità il traffico eco-mafioso di circa 80mila tonnellate di keu ha già gravemente danneggiato la salute delle persone, l’ambiente ed economia; nonché la reputazione di imprenditori, sia dell’industria conciaria che del comparto della gestione e smaltimento rifiuti che utilizzano il mix di inerti e ceneri lecitamente, realizzando conglomerati bituminosi, e non mescolandolo ad altri sottoprodotti e svendendolo sotto forma di sabbione come materiale da riempimento da cantiere. Reputazione che a prescindere dal caso clamoroso degli ecoreati dell’inchiesta Keu, le nuove generazioni d’imprenditori in realtà, si impegnano a cambiare; è il problema culturale del già complicato passaggio generazionale italiano che si scontra con nuove sensibilità e istanze, soprattutto ambientaliste che attenzionano tutto il comparto.
In Veneto la Dani, che si è affacciata al mondo delle certificazioni dieci anni fa e si approvvigiona di pellami solo da allevamenti che osservano le regole del benessere animale dato dalle cinque libertà (da fame, sete, cattiva nutrizione/ di avere un ambiente fisico adeguato/ da dolore/ferite/malattie, di manifestare caratteristiche comportamentali proprie, dalla paura e dal disagio). In Campania ha la sede legale la Stazione sperimentale per l’industria delle Pelli, organismo di Ricerca Nazionale delle Camere di Commercio di Napoli, Pisa e Vicenza a supporto di tutte le aziende italiane del settore conciario, con attività di ricerca e sviluppo, formazione, certificazione di prodotti e processi, analisi, controlli e consulenza; nel cluster campano Solofra tra le realtà più rappresentative c’è Russo da Cassandrino che esclude l’approvvigionamento di pelli provenienti da allevamenti insediati in aree deforestate, come l’Amazzonia. In Lombardia, a Robecchetto con Induno, la Conceria Guerino ha ottenuto la medaglia oro al termine dell’audit ambientale legato alla certificazione Leather Manufacturers Working Group per i profili di consumo energetico, utilizzo di risorse idriche, emissioni chimiche ed acustiche e gestione dei rifiuti.
A fronte di esempi realmente virtuosi e sforzi vistosi, ci sono strada lunga, poco tempo è poco e questioni aperte: le concerie rimangono collegate a un settore, la moda e il lusso, spesso impattante e scivoloso per tematiche non solo ecologiche ma anche di tutela e sicurezza del lavoro. Difficile capire se sia possibile salvare capre, bovi e cavoli nel segno delle transizioni o transumanze e ecologiche e digitali, e in attesa di rivoluzioni alimentari definitive; ma provarci è imperativo e se certe azioni compensative messe in atto non risolvono il problema perlomeno ne sostanziano l’ammissione.