Quanta vita attorno a una carogna, disse una volta la teologa Adriana Zarri, osservando un animale morto circondato da saprofagi, esprimendo allo stesso tempo stupore per la morte e felicità per la vita intorno.
La diffusione della parola “biodiversità la si deve alla pubblicazione, nel 1989, del libro Biodiversity del biologo E.O. Wilson.
La parola, entrata anno dopo anno nel dibattito pubblico, inizialmente indicava “la ricchezza di natura” o il numero di specie in un ambiente (e quindi anche attorno a una carogna). Ora è diventata più complessa, soggetta a fraintendimenti ed equivoci, ed è spesso usata a sproposito, senza quella indispensabile precisione tecnica.
Lorenzo Peruzzi, direttore dell’Orto e museo botanico dell’Università di Pisa, intervistato nel numero di aprile 2022 di Scienze, sottolinea per esempio che “quando si studiano i frutti antichi, si parla di biodiversità in modo assolutamente improprio e limitato, al massimo si può parlare di agrobiodiversità”.
Per restare in questo ambito, il compianto genetista dell’orzo (e non solo) Michele Stanca, sottolineava che per alcune culture agrarie, la biodiversità all’interno della specie fosse aumentata: “Da una parte abbiamo la biodiversità di un territorio, dall’altra la biodiversità all’interno delle specie agrarie. Ebbene, quest’ultima è aumentata. Le varietà di frumento (in gran parte conservate nelle banche del germoplasma) ammontano a 800 mila, madre natura, prima di Mendel, non avrebbe saputo fare di meglio. Riso? 600 mila. Orzo? 420 mila. E fagiolo 12 mila varietà”.
Queste varietà – ripeteva fino alla noia, Michele Stanca– sono dei salvadanai: invece di coltivarle tale e quali, insomma riesumarle (sarebbe come rimettere una 500 d’epoca sulle strade di oggi, è uno sfizio piacevole, d’accordo, ma non c’è gara con le macchine odierne), possiamo usare le eventuali resistenze o alcune loro specifiche caratteristiche qualitative per costruire nuove piante capaci di adattarsi meglio all’ambiente che verrà.
Questo per sottolineare il livello di attenzione che bisognerebbe avere quando si affrontano questioni simili, anche perché da alcune misure – in fondo la biodiversità è una utilissima e indispensabile misura- si passa a concezione filosofiche che mettono sul banco degli imputati la nostra specie e (visto che siamo su Agrifoglio) le nostre pratiche agricole. Come, per esempio, per citare un commento di buon senso che si sente spesso: “Non si vedono più i papaveri nei campi”. Dichiarazione che da una parte indica la mortificazione del nostro senso estetico e pittorico, dall’altra però non prende in considerazione un aspetto importante: o ci mangiamo i cereali o ci fumiamo i papaveri.
Insomma, per non farsi prendere dal nostro inappropriato sentimento di superiorità che ci fa credere di essere capaci di tutto e responsabili di tutto, limitando così la conoscenza più approfondita di alcune dinamiche presenti nella natura – che ci vedono parte e non solo dominatori delle stesse- meglio studiare per bene il concetto, così che possiamo, per usare una metafora, trovare modi efficaci e spazi ben studiati, sia per proteggere il grano dalle infestanti sia i papaveri dai diserbanti.
Per studiare la biodiversità ci vogliano i tassonomisti e i biologi, che purtroppo non aumentano, anzi decrescono, e quindi, spesso per questa importantissima misura ci si affida a esperti che così esperti di biodiversità non sono.
Per arrivare a essere consapevoli della biodiversità sarebbe fondamentale costruire ovunque sia possibile orti botanici, soprattutto nelle città, perché dagli orti passa un messaggio fondamentale: per proteggere la biodiversità dobbiamo capire che le piante sono organismi viventi meritevoli di protezione, a prescindere dalla loro utilità per l’uomo.
E poi gli orti botanici, e i luoghi, insomma, dove si studia la biodiversità, ci ricordano che l’osservazione di Adriana Zarri individuava la principale dinamica della vita sulla terra: la vita finisce ma la morte porta vita, che poi, per ampliare il campo, è una legge universale, non solo valida negli orti botanici: cerchiamo allora di produrre più vita dalla morte.