Buona notizia, dai: il Parlamento italiano ha approvato un emendamento che apre alla sperimentazione in campo delle piante ottenute tramite le cosiddette TEA- Tecnologie di Evoluzione Assistita.
Vabbè, in Europa vengono chiamate New Genomic Techniques, (le quali prima erano chiamate New Breeding Techniques), e il nome è importante e in questo caso è stato fondamentale per mettere d’accordo gruppi di opinioni che in passato hanno fatto la guerra alle biotecnologie, creando per vincere facile un immaginario bucolico e riproducendo un vecchio stereotipo, e cioè l’uomo che ingegnerizza tutto, corrompendo la natura.
La sperimentazione in campo è fondamentale: significa passare dalle buone intenzioni ai test e ai risultati. Anche perché una cosa è il laboratorio altra cosa è il campo, nel laboratorio ci sono le idee, in campo la vita, con tutte le sue complicazioni.
Comunque, il blocco della sperimentazione era assurdo, anche perché tutto ciò che finora abbiamo fatto l’abbiamo testato in campo. Ma non da pochi mesi orsono, da millenni.
Quindi, a futura memoria, e anche per capire in questa storia chi aveva ragione e chi torto – sapete, sono definizioni a volte importanti- ripercorriamo, come una cavalcata veloce, cosa hanno combinato in campo i nostri progenitori, anzi i nostri primi “ingegneri genetici”, sti maledetti incoscienti. Attenzione, usiamo l’espressione tra virgolette perché il codice genetico è stato scoperto nel 1953, eppure l’ingegneria genetica mosse (inconsapevolmente) i suoi primi, ma spavaldi, passi millenni fa. I nostri simpatici progenitori cominciarono da subito a manipolare l’ambiente nel quale vivevano.
Non si trattava di un semplice e leggero adattamento, ma di modifiche sostanziali. Prendiamo il caso degli indiani Kumeyaay della California del Sud. Potendo contare su un territorio davvero variegato – dai banchi di sabbia alle paludi della costa, dagli alvei alle valli, alle colline, fino ai deserti montuosi – questi nativi sperimentarono la coltura di piante commestibili e medicinali in tutti questi ambienti, spostando ad esempio lungo la costa piante che vivevano nei deserti, o ad altitudini maggiori piante che vivevano a valle, come le querce e i pini.
I cacciatori-raccoglitori amerindi ricercarono, trovarono, selezionarono svariate colture. Ed è da queste “matrici” che derivano molti vegetali che usiamo ancora oggi: patate, pomodori, zucche e zucchine, quasi tutti i tipi di fagioli, arachidi, noci di pecan, noci di hickory, noci di noce nero, semi di girasole, mirtilli rossi, mirtilli, fragole, sciroppo d’acero e carciofi di Gerusalemme, tutti i tipi di peperone, fichi d’India, cacao, vaniglia, pimento, sassafrasso, avocadi, riso selvatico e patate dolci.
Un esperimento sul pomodoro realizzato da Steven Tanksley e dai suoi studenti della Cornell University ha chiarito meglio il concetto di impronta genetica. Da dove derivano le piante domesticate? Risposta: da pochi esemplari. In pratica tutti i pomodori del mondo, tutti quelli oggi conosciuti, e non solo quelli che troviamo al supermercato, sono derivati da poche piante, coltivate, un tempo, in una piccola regione delle Ande.
Per farla breve, se ci domandiamo chi ha influito maggiormente sulla natura, chi l’ha modificata (spostando geni) di più e chi ha prodotto anche tanta bellezza e colori e forme e la meravigliosa biodiversità attuale, se sono stati gli odierni genetisti con i loro camici bianchi (altresì considerati come scienziati che giocano a fare Dio) o i vecchi cacciatori raccoglitori amerindi nonché la loro discendenza, siamo costretti ad ammettere che non c’è partita: vincono i vecchi, cento a uno.