Le castagne sono buone è il titolo di un film di Pietro Germi del lontano 1970, con Gianni Morandi, alias Luigi Vivarelli, uno spregiudicato regista televisivo, donnaiolo, e Stefania Casini che interpreta Carla Lotito, studentessa di architettura, cattolica e concentrata sui valori semplici della vita, e appunto: le castagne sono buone.
Il film di Germi con molti escamotage narrativi descrive il percorso simbolico dalla città, corrotta e cinica, verso la campagna, quest’ultima vista come il luogo della solidarietà, delle castagne semplici e buone.
Il film all’epoca non fu ben giudicato dalla critica, tanto che Germi sulla Stampa si difese, accusando la critica di non capirci niente – accusa che forse aveva le sue ragioni- ma quello che è interessante sottolineare è quel Certain Regard (un certo sguardo) che attraversa il pensiero di molti intellettuali, e cioè che le castagne sono buone: anche registi eccellenti come Pietro Germi prima o poi finiscono per celebrare la campagna.
Ovviamente le castagne, intese come frutto, sono bonissime e ispirano in ognuno di noi ricordi dolci, ma qui si intende quel certo sguardo tipico di alcuni letterati che, nonostante vivano una vita agita e girino ben pagati per trasmissioni televisive, convegni e festival, devono la loro fortuna non certo all’analisi seria dello stato dell’arte ma alla riproposizione coatta e in molte salse di un unico concetto: la modernità è fonte di corruzione il passato era meglio: come era bello il mondo quando c’erano le cose semplici e buone come le castagne.
Metti il capitalismo, metti la scienza e la tecnica che, sapete, sono dimensioni molto contestate perché la tecnica- dicono alcuni- ha allontanato l’uomo da non so quale stato di natura privilegiato e sano, insomma la modernità è uno strazio e le castagne non sono più buone, meglio abbandonare metaforicamente la città e tornare simbolicamente in campagne, alle castagne buone insomma – poi è interessante notare come la critica alla modernità, alla scienza e alla tecnica sia reticente quando si parla di anestesia, bypass, concimi azotati, cortisone, vaccini, antibiotici, bagni piastrelli, impianti fognari e di depurazione delle acque, giusto per citare alcuni prodotti della triade capitalismo, scienza e tecnica da cui abbiamo tratto un notevole vantaggio.
Ora, cattiva notizia, le castagne sono buone sì, ma i nostri castagneti non godono di buona salute. Peccato, dobbiamo tanto alle castagne, dobbiamo la sopravvivenza dei nostri antenati. La storica medievalista Gabriella Piccinni ha scritto che le castagne erano “un ripiego della povertà, più che un costume alimentare”.
Vero, si cominciava a mangiare castagne quando la scorta dei cereali si esauriva, più piccole erano le superfici, meno cereali si producevano, più castagne si consumavano: lessate, arrostite, con o senza bucce, con la minestra, si potevano anche essiccare e cuocere nel brodo o nel latte, anche se la maggior parte dei frutti veniva essiccata e ridotta in farina – poi ovviamente il legno del castagno era ed è considerato un prodotto pregiato.
Il castagno italiano non se la passa bene, a parte l’abbandono dei castagneti – i restanti si sono inselvatichiti- vanno considerati nel bilancio anche le malattie, quali il cancro della corteccia e il mal dell’inchiostro, insomma la superfice a castagno si è notevolmente ridotta e siamo sempre là: se vogliamo salvare le cose buone di una volta dobbiamo usare gli strumenti che la modernità, cioè quello che l’ingegno umano ci mette a disposizione, altrimenti la nostra attività culturale si ridurrà in un rosario di belle frasi e concetti di moda, che però calzano bene sono a chi li pronuncia, lasciando gli altri in abiti dozzinali, poveri: una situazione non così buona, almeno non come le castagne.