Forse stiamo esagerando con la narrazione del cibo, della cucina, degli chef e compagnia cantante.
La narrazione procede su binario unico, a velocità costante e non ci permette ormai di riflettere su quello che c’è intorno, perché gli aggettivi sono ridondanti, tutto è superlativo, come cuciniamo noi nessuno mai, l’eccellente patrimonio gastronomico, le specialità, la cucina delle nonne, anzi delle bisnonne, per non parlare dei vini e delle centinaia di prodotti tipici a nostra disposizione, e difatti ogni comune ha il suo prodotto con la sua speciale denominazione.
Il risultato di tutto questo? Secondo alcuni un formidabile potenziale economico, il classico e inesauribile volano dell’economica che altro che petrolio… dunque nei sogni dei politici e degli assessori al turismo e per la gioia dei pubblicitari e cinematografari e degli influencer che si deliziano con le immagini alla Mulino Bianco, l’Italia potrebbe anzi deve vivere solo di turismo in senso lato, compreso quello enogastronomico: nel 2022, il 30% del Pil – si dice, anzi si grida- è dovuto all’agroalimentare (seicento miliardi di euro su un Pil complessivo di millenovecento miliardi), quindi un terzo della ricchezza italiana dipende dalla produzione e distribuzione del cibo.
Costoro immaginano l’Italia come un’immensa farm, di ultima generazione, intenta a produrre cibo per palati sopraffini, i nostri, sempre tesa a insegnare al prossimo come si campa e come si mangia – tradotto noi mangiamo benissimo gli altri malissimo – per non parlare dei paradossi, perché è un attimo che dal gastronazionalismo si arriva al gastrocomunismo, nel senso di esaltazione del cibo che si cucina in quel comune, e che quindi diventa guerra tra comuni vicini, che si discreditano a vicenda.
Si immagina anche che l’Italia sia un ristorante sempre aperto, a prezzi buoni e qualità altissima dove si insegna alta cucina.
Difficile immaginare qualcosa di altrettanto potente e nello stesso tempo falso, se non rivoltante. A parte che il settore del turismo, per non parlare di quello della ristorazione, è il meno innovativo di tutti, al massimo in un hotel e in un ristorante si cambiano le suppellettili, seguendo il trend dell’international style. A parte questo, vogliamo parlare dei contratti da fame e spesso in nero che fondano il settore? In genere quelli che lamentano “i giovani non vogliono lavorare” sono gli imprenditori del settore turistico e ristorazione. Gli analisti più attenti rispondono: e ci credo, alle tue condizioni nemmeno morto.
Dunque, a parte la fondamentale questione relativa ai contratti e i diritti dei lavoratori, si aggiunge il fatto che l’Italia non è affatto questa innovativa e produttiva azienda agricola. Anzi, i numeri sono scoraggianti e si ripetono, inutilmente, spesso: superfice media aziendale limitata, e ciò vuol dire alti costi, età media degli imprenditori agricoli molto alta, cioè vuol dire che più invecchi meno innovi, bassa anche la scolarizzazione e questo fattore è il classico carico da novanta.
Ma a parte tutto questo, come spiegano Alberto Grandi e Daniele Soffiati nel lor bel libro La Cucina italiana non esiste (Mondadori), i numeri non sono i suddetti: “L’ipertrofica dimensione rappresentativa attribuita alla produzione agroalimentare italiana non è la realtà. In verità, sommando il settore primario nel suo insieme e l’intera produzione agroalimentare – operazione statisticamente discutibile – si arriva a un valore complessivo che si aggira intorno ai 200 miliardi. Peggio ancora se si analizzano i conti con l’estero. Giova ricordare, infatti, che la bilancia commerciale italiana nel settore agroalimentare ha fatto segnare piccoli avanzi solo nel biennio 2020-21, a causa del rallentamento generale dovuto al Covid-19, per poi tornare in deficit nel 2022, ai livelli di sempre. Insomma, il mondo può fare a meno di noi, mentre noi non possiamo fare a meno del mondo. Se poi andiamo a vedere esclusivamente la composizione del settore export agroalimentare – il cui valore si aggira intorno ai 60 miliardi (meno del 10% del totale delle esportazioni italiane) – si scopre che la fetta più grossa è rappresentata da produzioni che l’italiano medio farebbe fatica a identificare con le proprie tradizioni locali, tipo una nota crema spalmabile alle nocciole (il cui primo ingrediente è lo zucchero e il secondo l’olio di Palma). Segue un condimento industriale a base di aceto, mosto e caramello, un vino spumante che si produce in quantità industriali dentro autoclavi in acciaio tra Veneto e Friuli, una famosissima marca di pasta con sede sulla via Emilia eccetera… Per dirla tutta, la casa che produce la suddetta crema spalmabile esporta da sola circa 9 dei 60 miliardi del Made in Italy agroalimentare, mentre il valore complessivo dell’export per quanto riguarda il Parmigiano Reggiano, che il mondo ci invidia, non arriva a 725 milioni”.
Insomma, se in Italia i settori più avanzati fossero più competitivi, forse non ci sarebbe tutta questa enfasi sulla nostra cucina, enfasi che costringendoci a guardare solo in una direzione ci sta facendo assistere a un generale impoverimento della struttura produttiva, del lavoro e del tessuto sociale italiano. “Da qualunque parte la si guardi – scrivono Alberto Grandi e Daniele Soffiati – la scommessa su uno sviluppo trainato da agricoltura, turismo e ristorazione, ha tutta l’aria di essere un pessimo affare per un Paese come l’Italia”.
In questo numero, quindi, parliamo del libro La Cucina italiana non esiste (Mondadori) di Alberto Grandi e Daniele Soffiati, un bellissimo viaggio tra passato e presente, un elogio all’immigrazione, vera fonte della biodiversità della cucina, non solo italiana, insomma la storia italiana raccontata grazie ad altri strumenti, agronomici, enologici, gastronomici.