Le piante, si sa, sono organismi viventi che mettono in comunicazione terra e cielo: descrivono un arco. Con le radici assorbono acqua e sostanze nutritive, lentamente ma costantemente pompano acqua fino alla chioma. Qui le foglie aprono gli stomi – sono come delle finestre – e fanno entrare un gas, l’anidride carbonica. Grazie ai fotoni, cioè alla luce che ci illumina e ci dà calore, avviene una fantastica reazione chimica, la pianta produce amido e lignina e ossigeno.
Noi umani tentiamo di imitare, molto maldestramente, le piante, abbiamo bisogno di radici abbastanza forti per puntare lo sguardo verso l’alto. Descriviamo un arco anche noi, ma il nostro è molto fragile e male assemblato.
I biologi evoluzionisti sostengono che il nostro arco è formato da quattro materiali – si fa per dire. Il primo materiale che ci caratterizza è il sintomo, tendiamo a buttare fuori (vomito, diarrea, febbre) per tornare in salute. Per star bene dobbiamo star male, direbbe un filosofo pessimista.
Il secondo materiale è il compromesso. Qui varrebbe la pena per semplificare il concetto, ricordare il noto sketch della Smorfia, dove Massimo Troisi discute con Dio, sostenendo che insomma non ha fatto le cose per bene e la bellezza non domina il pianeta. Troisi da buon filosofo empirico aveva ragione, il compromesso è una sorta di equilibrio non così armonico che l’evoluzione ha trovato per far sì che il nostro arco funzioni al meglio, ma non è certo perfetto. Il compromesso è una partita doppia, costi/benefici, ci siamo alzati, abbiamo liberato le mani, ma il mal di schiena ci tormenta. Per non parlare del canale del parto che si è ristretto con la postura eretta. Conseguenza? Il patimento delle donne e dei neonati con cervello non così grande, comunque inabili, bisognosi di cure parentali, dalle quali dipenderà, poi, gran parte della vita futura, per non parlare della struttura delle società che per forza di cose si è strutturata attorno al gruppo, con le note e disdicevoli conseguenze tribali che hanno caratterizzato la nostra storia.
Il terzo è il mismatch, una sorta di dissonanza tra noi e l’ambiente. Il mondo è molto complicato e noi facciamo parecchio i buffoni, per gran parte del tempo ci crediamo speciali, per la restante parte ci condanniamo come peccatori (e spesso ci assolviamo). Purtroppo, il mismatch ci indica una fragilità. L’ambiente cambia più velocemente di quanto noi possiamo prevedere, dunque conoscere, ciò vuol dire che gran parte delle nostre scelte si basano sull’incoscienza e quindi arriviamo al quarto materiale: i precursori naturali.
Un compendio di istinti, abitudini, zone di confort che da una parte ci rassicurano e permette una discreta sopravvivenza, dall’altra ci condannano a non capire il presente. Ai ragionamenti e alle analisi, spesso, preferiamo le euristiche. Che, quando funzionano, ci permettono di andare avanti, ma sono responsabili anche di molti nostri sbagli: come se ci affidassimo per le nostre scelte a radici troppo sottili per un ambiente troppo vasto e arioso.
Quindi noi esseri umani, con questo materiale a diposizione, nel tentativo di affinare l’arco spesso lo indeboliamo e finisce che vaghiamo per boschi e rovi. Lo sappiamo che è un percorso difficile, infatti lo trattiamo con tutti i crismi e la vita altro non è che un percorso: il percorso dell’amore.
Molti autori napoletani, alcuni sconosciuti, popolari, altri noti, aristocratici e poveri, hanno usato le piante per raccontare questo percorso e cioè le passioni e i fallimenti, le erbe curative e quelle amare, le rose e spine, l’allegria e la disperazione, l’ironia e la tragedia. Insomma, sulle piante hanno costruito metafore, riflessioni poetiche, canzoni botaniche e sentimentali e di questo vorremo parlare per andare incontro all’autunno senza troppa quiescenza: della botanica sentimentale napoletana. Come dire: cantiamo i quattro materiali di cui sono fatti i sogni.