Premessa: prima di buttarci nel caleidoscopio delle innovazioni agricole e non solo, così, giusto per capire il contesto di riferimento, dunque il mondo nel quale ci muoviamo: nel 2000 le fonti fossili rappresentavano l’86% del consumo di energia primaria, nel 2019 siamo scesi all’84%. Sono i calcoli di Vàclav Smil e tra l’altro come mi piacerebbe che il suo libro, da poco riedito da Utet, Energia e civiltà – Una storia, venisse adottato dalle segreterie dei partiti e da quelli che organizzano scuole e master di vario tipo e livello: senza un abc energetico i discorsi sono fatui.
Allora, visto i dati uno può dire tutto un bla bla bla, oppure affrontare la cosa con più realismo, e cioè la transizione energetica da fonti fossili a quelle rinnovabili è cosa buona e giusta e tuttavia ci sono tempi tecnici e culturali difficilissimi da scavalcare con un oplà. Su entrambi c’è bisogno di lavorare con pragmatismo e non solo con dichiarazioni altisonanti e aggettivate (anche se capisco che le dichiarazioni ci danno una spinta per cambiare mentalità), perché se in questa parte di mondo con i supermercati pieni e i format tv di cucina sparati a tutto volume, la transizione è in corso, seppure lentamente da decenni e forse può essere anche accelerata visto che la popolazione è in decrescita e invecchia, al contrario in quei paesi dove la popolazione è in crescita (e con essa i bisogni energetici) lì allora è un’altra storia. Voglio dire, circa 3 miliardi di persone consumano meno energia pro capite di quanto Germania e Francia consumavano nel 1860. Sottolineiamo più volte questo dato, è allarmante ma illuminante. Se vogliamo (come siamo obbligati a fare, meno inquinanti mettiamo in circolo meglio è per tutti) essere pragmatici e non fare bla bla bla sulle soluzioni ci conviene affrontare il dilemma: chi oggi ha un basso consumo energetico e bassa ricchezza economica per sperare di migliorare la propria qualità di vita (condizione indispensabile per essere ecologisti cioè avviare la transizione) deve moltiplicare l’offerta energetica e magari l’andrà a prendere nelle fonti fossili. Anche perché allo stato dell’arte per tutte le operazioni fondamentali che fondano l’era moderna e cioè la fusione del ferro, la produzione di cemento, la sintesi dell’ammoniaca e la globalizzazione delle merci e pure di noi stessi, visto che stiamo sempre a parlare di dove vai (e quanto lontano) in vacanza quest’anno, ebbene per queste operazioni non abbiamo alternative a bassa intensità di carbonio.
Siccome il riscaldamento globale antropico è assodato, è agli atti, ciò vuol dire che, se da una parte facciamo bene a parlare di mitigazione, cioè emettere meno gas serra, dall’altra dobbiamo mitigare tutti e tutti insieme: i gas serra non sono come la nuvola di Fantozzi che piovono solo sulla testa di qualche sfortunato. Magari noi ne emetteremo meno grazie a politiche mirate e utili allo scopo e può essere che, per focalizzarci in ambito agricolo, per effetto di questa mitigazione produrremo meno cibo e allora chiederemo a qualcuno di colmare il divario. E finisce che quegli altri emetteranno lo stesso quantitativo di gas serra che noi, appunto, emettevamo prima della politica di mitigazione. Quindi, sì, può essere (è auspicabile) che ci metteremo tutti d’accordo e subito e le cose prenderanno un’altra piega, però comunque ci vorrà tempo, e la CO2 che ora è in circolo, in circolo resterà per molti decenni (non è facile da sottrarre nell’immediato). Oppure come i dati di cui sopra sembrano suggerire procederemo con passi diversi, da una parte miglioreremo dall’altra meno: ecco se questo scenario dovesse verificarsi e considerato che c’è incertezza su come sarà il clima nel futuro e cosa succederà, allora è bene prepararsi. Come? Innovazioni, si dice: una sorta di parola d’ordine, l’altra è sostenibilità, legata a doppio filo alle innovazioni
La sostenibilità! Il linguista tedesco Pörksen parlava (e si era nel 1988) di parole di plastica, ma sarebbe meglio dire parole ameba, cioè parole che con l’uso hanno perso il loro significato originario, dunque inglobano come un’ameba tutto. La sostenibilità tanto decantata potrebbe essere già diventata una parola ameba. Cos’è, come si misura? Un abbecedario è giusto fornirlo, altrimenti costruiamo innovazioni ma poi non siamo capaci di misurarne gli effetti. Sergio Saia che insegna agronomia a Pisa e da anni si occupa di mettere dei numeri accanto all’aggettivo sostenibile ripete spesso che la parola ha un bel suono e ce ne innamoriamo, ma non è detto che ne comprendiamo il significato. Purtroppo – ci dice- non abbiamo una definizione chiara di cosa sia la sostenibilità. Riusciamo a misurane solo alcuni aspetti, come per esempio l’impatto ambientale. Ma l’impatto ambientale è solo un aspetto della sostenibilità. Tra l’altro più facile da misurare: quanto mi è costato quell’oggetto se considero tutti i processi necessari ad ottenerlo (estrazione di metalli, la sintesi della plastica, la trasformazione, l’energia utilizzata, il trasporto ecc.)? Ma ci sono altre tre aspetti più complessi, per esempio: b) l’impatto economico. Non è facile capire quale sia l’impatto per un singolo alimento. Perché non dipende solo dall’alimento stesso. Produrre pomodori in Emilia non è come produrli in Puglia, perché quei territori hanno una struttura economica diversa e magari possono offrire servizi diversi e più efficaci. Poi il terzo pilastro, ancora più complesso è c) l’impatto sociale. L’impatto sociale di una produzione, a maggior ragione se è produzione agricola, dipende moltissimo dal contesto, territoriale, nazionale o comunitario. L’ultimo aspetto è quello più ignorato, soprattutto nei paesi ricchi è d) la sicurezza alimentare. Non tanto la certezza di avere un prodotto salubre (chiaro, è necessario) ma la certezza di avere cibo, cioè di avere un prodotto. Noi ce ne siamo dimenticati, ma altri paesi del mondo lottano per avere il cibo, non si può chiedere a qualcuno di impattare di meno o di avere un minor ritorno economico se ci sono carenze alimentari.
Ma diciamo che bene o male una misura possiamo ottenerla, almeno per grandi linee così è più facile giudicare se uno strumento è efficace o meno, allora per terminare la premessa e andare al sodo e passare a raccontare un po’ di innovazioni che sono anche business e richiedono investimenti e non solo bla bla bla, per prima cosa potremmo studiare piante che già da oggi siano adattabili a diverse temperature. Così se arriva (simbolicamente) la bufera siamo preparati. Come si fa a studiare piante adattabili a un clima che non sappiamo ancora prevedere? Possiamo simulare il tutto. In gergo Modellistica, un sistema molto promettente. Un tempo, per progettare le macchine c’era un tecnico che disegnava il modello e poi quelli dell’officina si incaricavano di costruire il prototipo: lo testavano in strada, correggevano i difetti e poi tornavano in officina, ricalibravano il tutto e via di questo passo finché la nuova auto andava sul mercato. Risultato? Tanto tempo e tanti soldi. Ora invece- ci spiega Roberto Confalonieri dell’Università di Milano- il progetto viene fatto al computer e poi attraverso vari software vengono simulate diverse situazioni: come si comporta quella macchina in caso di terreno bagnato, ecc. ecc.? Tutto insomma viene testato in ambiente digitale. Risultato? Tempi e costi dimezzati. La modellistica ora si sta applicando anche alle piante (ma potremmo farlo anche con gli animali), con lo stesso sistema sopra spiegato. Quando si è sicuri che quella pianta reagisce bene perché ha determinate caratteristiche, allora si va dal breeder e si dice: falla così. Quindi la modellistica permette in primo luogo di instaurare un dialogo tra settori diversi, ci vuole l’informatico, l’agronomo, il climatologo, il biologo ecc., in secondo luogo, grazie a questo dialogo, di costruire piante e simulare la loro resistenza ai cambiamenti climatici. Di modo che nel caso che le temperature salissero (da una parte, magari scendono dall’altra) e le politiche di mitigazioni non dovessero funzionare seduta stante, almeno non ci troveremo impreparati. Sono strumenti concreti, richiedono passione, ovvio, e investimenti, ancora più ovvio, un po’ di fiducia dell’ingegno umano e tanta sperimentazione, ma sono un buon segnale: non siamo impreparati, nemmeno ricatto della retorica dell’apocalisse che come sappiamo ci porta verso la paralisi.
Altro strumento interessante? La “metabolomica”. Parola che magari vista la complicazione fonetica ci metterà un po’ prima di diventare ameba. Si tratta di una disciplina di studio inclusiva, dunque a 360 gradi, grazie alla quale riusciamo a studiare il metabolismo della pianta. Possiamo capire come la pianta reagisce agli stimoli esterni, cosa conserva, cosa scarta. Nello specifico- ci ricorda Valentina Buffagni (ricercatrice dell’Università Cattolica) – si sta cercando di analizzare come alcune piante reagiscono ai biostimolanti. Termine con quale vengono definite una serie di sostanze di origine naturale, derivanti da alghe o da scarti di lavorazioni (che quindi si inseriscono in un’ottica di economica circolare: nulla va sprecato ma tutto riutilizzato) che come dice la stessa parole (a mo’ di vitamine e integratori) biostimolano. Possono stimolare e migliorare il metabolismo della pianta stessa e quindi, nello specifico a) aumentano la disponibilità di elementi nutritivi nel suolo; b) stimolano la crescita radicale; c) promuovono l’attività di quegli enzimi coinvolti nei processi di assimilazione dei nutrienti. Anche qui stessa questione per la modellistica, funziona se si instaura un dialogo tra diversi saperi e se si mettono su investimenti in tal senso. Tanto per dire, produrre un biostimolante costa, non si stratta di prendere una comune alga e buttarla nel processo. Deve essere provato in anni e anni di sperimentazione, certificarlo come sicuro.
Ma la carne? Quanti libri di acqua servono per produrre una bistecca? Non è insostenibile? E gli allevamenti, sia latte sia carne, quanto metano (un fisiologico gas prodotto dalla digestione dei bovini: flatulenze insomma) emettono? Il professore Sergio Saia cerca di complicare le cose, così per aiutarci a cercare strumenti più efficaci e dunque scommettere non in una ma in tante soluzioni, e ci dice che l’impronta idrica (o water footprint) tiene in conto di tutte le voci utilizzate per un processo. Nel caso dell’agricoltura c’è l’acqua verde (le piogge, non le mettiamo noi), quella blu (l’irrigazione) e quella grigia, ossia la quota che serve a riportare le acque di falda, fiumi, laghi e mare a una concentrazione di residui sotto la soglia di legge. L’acqua grigia non è sempre necessaria, talvolta le piogge apportano più acqua del necessario e quindi fanno fronte all’esigenza in acqua grigia. Quindi, se non producessimo quella carne, purtroppo non risparmieremo 15 mila litri d’acqua, ma molto meno. Ma comunque un piccolo risparmio ci sarebbe. Quei litri sono tutti quelli utilizzati, anche quelli provenienti dall’acqua piovana, che cadrebbe comunque. Inoltre, nell’ipotesi di produrre qualcosa al posto dei foraggi, dovremmo considerare l’acqua blu e grigia della nuova produzione, che potrebbe anche essere di più della somma dell’acqua blu e grigia dei foraggi (e spesso lo è purtroppo). E poi tutto va misurato in funzione della resa: le nuove colture potrebbero produrre poco e male. Ovviamente nell’ipotesi di smettere di mangiar carne dovremmo considerare altre fonti proteiche e l’impatto delle stesse. In termini di acqua, al momento attuale, altre fonti hanno anche meno esigenze delle carne, ma questo vale solo perché vengono prodotte in luoghi diversi. Nello stesso luogo potrebbero avere più esigenze. E peggio, oltre che l’acqua, dovremmo considerare l’impatto sul suolo e sul sistema agricolo: la produzione di carne è anche fatta in pascoli, la cui messa in coltura ha un forte impatto e inoltre la produzione di foraggi aiuta enormemente a diversificare gli agro-ecosistemi e fornisce il letame, il cui ruolo, credo, non ha bisogno di spiegazione. Il punto è quindi la diversificazione. Ridurla fa sempre danno. E quel danno va poi mitigato.
Poi c’è la questione metano, i bovini ruminano ed emettono metano. Una soluzione allo studio? Pellets di aglio o agrumi, per esempio che ingeriti dagli agrumi a parte che non passano il cattivo odore o le speziato agrumato al latte, ma bloccano alcuni enzimi che producono metano. Una piccola soluzione trovata da una piccola start up anglo svizzera la Mootral. Ora se guardate il bilancio di alcune start up che si occupano di innovazione in agricoltura potete notare che a) i rimedi proposti non sono quelli pubblicizzati da certi media come semplici e naturali e via dicendo, ma sono frutto di investimenti e ricerca e b) rendono molto, conviene innovare (e ovvio poi bisogna sempre misurare la sostenibilità portata dalle innovazioni). Voglio dire, la tecnologia AgriFood è un mercato in via di maturazione, e se date un occhiati ai dati di AgFunder, potete notare come le diverse startup nel settore hanno attirato quasi 17 miliardi di dollari di capitale di investimento, un aumento del 43% rispetto all’anno precedente.
Il contesto di cui sopra, con quei dati allarmanti, ossia la forte dipendenza dalle fonti fossili e la difficoltà di misurare la sostenibilità, rende tutto più complicato e il rischio di bla bla bla è forte sia da parte di chi chiede soluzioni immediate sia da parte di chi quelle soluzioni propone. Tuttavia, sul mercato ci sono molte aziende che stanno fornendo parecchi strumenti con i quali possiamo gestire meglio le risorse nei diversi campi. Il problema è duplice, un po’ abbiamo visto il contesto è complicato, un po’ non siamo a conoscenza di moti rimedi. Ci vorrebbe a intervalli regolari un party dell’innovazione, dove il cittadino potesse capire cosa bolle in pentola e dare il suo contributo, anche economico, perché la salvezza non so se arriverà mai, ma un certo miglioramento quello sì. Dipende da come affronteremo le cose, dalla pazienza che dovremmo per forza tenere, dal cibo che costa energia ma unisce e da forza a tutti. E dalla ricerca nonché curiosità che ci farà discutere con altri simili e diversi da noi.