Edizioni del Capricorno ha portato in libreria Storie di cioccolato, a Torino e in Piemonte, di Clara e Gigi Padovani. La pianta di cacao è uno speciale indicatore non solo per raccontare la storia post-scoperta delle Americhe ma anche di come un alimento nato, coltivato a chilometri di distanza da noi diventa poi vanto territoriale.
Il sovranismo di cui tanto si parla è condizione essenziale della globalizzazione, che con i successi e i suoi eccessi è un fenomeno nato secoli fa, e il cioccolato è appunto un indicatore perfetto per raccontare questa apparente contraddizione e non solo: l’innovazione che si sviluppa nelle storie di successo, anche e soprattutto nel settore primario.
Abbiamo raccolto degli estratti, speriamo che vi convincano a leggere il libro
Torino è famosa per il Museo Egizio, la Mole Antonelliana, il teatro Regio, ma c’è una triade che porta subito a riconoscere il genius loci di cui si parla: il cioccolato (meglio se del tipo gianduia), i grissini (rubatà o stirati), il vermouth (bianco, rosso o rosé). Come molte città italiane, Torino ha i suoi «prodotti bandiera». Basta citarli per identificare la piccola capitale sabauda, caratterizzata, certo, «dai grandi portici areati e soleggiati, i negozi ricchi, le insegne dorate, i cristalli scintillanti di cielo, i bei vialoni larghi, lunghi, diritti, all’infinito» (Mario Soldati, Le due città), ma pure dalle cioccolaterie allettanti, dai fornai raffinati, dai caffè eleganti.
Che bevanda era all’inizio: Era una bevanda amara, fredda e scura, che ai primi europei giunti in Messico parve un «beveraggio da porci», come scrisse il viaggiatore toscano Girolamo Benzoni nella sua Historia del Mondo Nuovo (1575). Ci volle più di un secolo prima che fosse apprezzata dalla nobiltà e dal clero, che la elesse a suo rito preferito. Non la si considerava un vizio, bensì un medicinale. Probabilmente dobbiamo ringraziare le suorine missionarie in Guatemala, se la cioccolata divenne una bevanda piacevole, calda e zuccherata, resa più leziosa grazie all’aggiunta di spezie; fino a diventare, nel periodo barocco, un «brodo indiano» aromatizzato con anice, pepe nero, vaniglia, cannella.
Quali sono le tappe dell’arrivo in Europa di Theobroma cacao? Sono note, raccontate da tanti studi basati su documenti inoppugnabili. Tra questi è considerato assai autorevole quello che riporta le accurate ricerche dei coniugi americani Sophie e Michael Coe: The True History of Chocolate. Il professore della Yale University, archeologo e antropologo, e la moglie scrivono che il principe Filippo di Spagna (prima di diventare re Filippo II) fu il primo in Europa ad assaggiare il cioccolato – reso spumoso in una scodella – quando ricevette una delegazione di nobili maya kekchi condotti alla corte di Madrid dai frati domenicani.
Correva l’anno 1544, si era in pieno Rinascimento, con l’Europa squassata dalle guerre di religione tra cattolici e protestanti e dalle lotte tra l’impero e i Borbone francesi, alleati (allora) dei Savoia (non ancora trasferitisi a Torino), mentre gli aristocratici si sollazzavano leggendo le sconce avventure di Le vie de Gargantua et de Pantagruel raccontate da Rabelais e i condottieri e i principi cercavano d’imparare l’arte della politica dal trattato di Machiavelli. Non si sa se el Prudente – come fu soprannominato Filippo II – abbia gradito quella bevanda. È però certo che il primo carico di chicchi di cacao da Veracruz arrivò a Siviglia soltanto nel 1585, avviando il «reale commercio transoceanico» (come scrivono i Coe).
Cinque anni prima era morto, stroncato dalla cirrosi epatica
a soli cinquantadue anni, il duca di Savoia Emanuele Filiberto (bonariamente soprannominato dai sudditi piemontesi Testa ’d’Fer). Da grande condottiero qual era, combattendo al fianco degli spagnoli era riuscito a riprendersi il Piemonte, cacciando i francesi, e aveva spostato la capitale del ducato in Italia. Uomo d’armi, inventore della guerra moderna di stile napoleonico, Emanuele Filiberto era probabilmente più incline alle grandi bevute di vino rosso della Rioja che alle chicchere delle dame, come dimostra la causa della sua dipartita.
Assume quindi i contorni di una leggenda la vulgata – raccontata fino ai giorni nostri, senz’alcun riferimento documentale – secondo la quale nel 1560, per festeggiare il trasferimento della capitale ducale da Chambéry a Torino, avrebbe addirittura servito «simbolicamente alla città una fumante tazza di cioccolata», avviando così la lunga storia d’amore tra Torino e il cioccolato.
Se dunque siamo certi di dover ringraziare casa Savoia per aver portato il cibo degli dèi in Italia, le prime prove documentali si trovano soltanto a partire dalla metà del Seicento. Fanno riferimento alle due Madame Reali, di origini francesi, andate in sposa a due duchi savoiardi, che si trovarono a regnare in seguito alla morte dei mariti: la bionda Cristina di Borbone (1606-1663), reggente dal 1637 al 1648 e consolata ampiamente da Filippo d’Agliè, e la riccioluta Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours (1644-1724), cugina del re di Francia, che fu reggente dal 1675 al 1684, fino a quando il figlio Vittorio Amedeo II non la detronizzò.
In particolare, la seconda Madama Reale, amante delle feste e criticata per le ingenti spese dilapidate nei divertimenti di corte, nell’ottobre 1678 avrebbe concesso una patente di vendita a un artigiano astigiano per la produzione della cioccolata. In tanti hanno cercato negli archivi sabaudi il documento che attesti tale decisione, ma non se n’è più trovata traccia.
La fonte originaria fu lo storico divulgatore Alberto Viriglio, che ha scritto nel suo libro Voci e cose del vecchio Piemonte (1917): «Il cioccolato, specie nell’incarnazione di ‘diablottini’, ebbe meritamente fama fin dalla sua introduzione in Torino che risale – sembra – a poco prima del 1678, di tale anno essendo una Patente (da me incontrata in minuta negli archivi) di Madama Reale Gioanna Battista.
La storica Nicoletta Calapà, nel suo saggio La cioccolata alla corte di Carlo Emanuele III: storia, fortuna, ricette, scrive di aver trovato traccia di un mercante di nome Arri (non Ari), di origini astigiane, che riforniva la corte fin dalla metà del Seicento.
Anche Giuseppe Bracco, docente emerito di Storia economica all’Università di Torino, è convinto che Catalina Micaela abbia introdotto la «cioccolatomania» a Torino. Nel suo saggio Il cioccolato nella città di Gianduia, il professore ricorda che il compito di preparare la bevanda era affidato a un settore specifico del personale addetto alla casa regnante, che comprendeva «confettureria, frutteria e pasticceria» con tre capi (uno per specialità) e vari aiutanti: inoltre sostiene che già nel Seicento esisteva un «ufficio della cioccolata», sia pure non stabile. Specifica Nicoletta Calapà che a partire dal 1737 il duca Carlo Emanuele III, soprannominato «Carlin» dai torinesi, creò un apposito «Ufficio del Cioccolato e Caffè».
La complessa macchina dello Stato sabaudo al servizio del sovrano era suddivisa in tre «aziende»: Casa, Camera e Scuderia. La prima si occupava della vita quotidiana, la seconda dell’approvvigionamento per le ampie cucine dedite a nutrire tutti i cortigiani, la terza degli spostamenti e del rito della caccia soprattutto alla reggia di Venaria. Nel 1750 l’Ufficio del Cioccolato e Caffè era composto da un capo, due aiutanti e due garzoni ordinari, mentre cinque anni dopo l’organigramma comprendeva un capo, quattro aiutanti e quattro garzoni.
Un documento dell’epoca ci conferma che a corte si gustava soprattutto il «cacao di caracca», ovvero di Caracas: così era definito il criollo venezuelano di alta qualità. Il cioccolato, in tavolette da sciogliere, dette «bolli» o «bogli», veniva anche omaggiato alle altre corti europee, come Vienna, Parigi, Londra. A volte sotto forma di diablotin, gli antenati dei cioccolatini. È documentato che alla fine del Settecento a Torino si producevano circa 350 kg al giorno di cioccolato. In una sola fornitura, nel 1773, si arrivò a realizzare ben tredici quintali di cioccolato, per soddisfare gli appetiti dei regnanti e dei nobili a Palazzo Reale.
(Per gentile concessione di Edizioni del Capricorno che ringraziamo).