Luca Simonetti nel suo noto saggio Mangi, chi può. Meglio, meno e piano. L’ideologia di Slow Food (2010, Mauro Pagliai Editore) scrive: “SF è nata, sul finire degli anni Ottanta, da un gruppo di persone pervase da un “disgusto snob di quell’Italia consumista e televisiva” e dal desiderio di “arginare questa calata dei barbari”. Essa trae la sua origine episodica da una reazione alla comparsa in Italia dei fast food, tuttavia ha fin dall’inizio rivolto la sua opposizione non verso un semplice modello di cucina, ma contro una intera cultura: “dietro al fast food c’erano una nuova cultura e una nuova civiltà con un unico valore: il profitto. Il piacere è del tutto incompatibile con la produttività, in quanto il tempo speso per la sua ricerca viene sottratto alla produzione.” Così nel “manifesto programmatico” di SF si sostiene che la civiltà moderna è nata “sotto il segno del dinamismo e dell’accelerazione “, elevando la macchina a modello per l’uomo stesso e la velocità ad “ideale dominante”. SF propone di “prevenire il virus del fast”, opponendo alla “vita dinamica” la “vita comoda”. E qual è il vaccino? “Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di un’adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento“.
Sarebbe questa la “sommessa proposta per un progressivo quanto progressista recupero dell’uomo, come individuo e specie, nell’attesa bonifica ambientale, per rendere di nuovo vivibile la vita incominciando dai desideri elementari”; e la prova della giustezza di questa tesi è agevole: “gli efficientisti dai ritmi veloci sono per lo più stupidi e tristi: basta guardarli… E’ sotto il segno della lumaca che riconosceremo i cultori della cultura materiale e coloro che amano ancora il piacere del lento godimento “.
Vediamo qualche contraddizione: la descrizione del frequentatore di fast food (un “barbaro”, “stupido e triste”, espressione di una “nuova cultura e una nuova civiltà con un unico valore: il profitto”, ed anzi frutto di un “virus”), che ricalca quasi alla lettera la descrizione dell’uomo “disumanizzato” e volto al perseguimento di finalità basse, materialistiche, per non dire diaboliche, che innumerevoli scrittori tradizionalisti hanno tramandato. Inoltre, l’identificazione della velocità – anzi, della frenesia – come caratteristica fondamentale della vita moderna (della “civiltà industriale”), che è anch’essa un ben noto topos della critica alla modernità, risalente alle primissime reazioni alla rivoluzione industriale, e di cui in Italia si sono oggi fatti portavoce numerosi intellettuali.
Ma il “fast food” è sempre esistito, dalla Roma antica alla Cina medievale, dalla Francia del Settecento all’America precolombiana: sono, al contrario, proprio i pasti consumati con agio al desco familiare ad essere – salvo che per ristrette cerchie di privilegiati – assai recenti e caratteristici della civiltà borghese moderna. E’ quindi del tutto errato, ed anzi costituisce un vero e proprio capovolgimento della realtà storica, considerare il fast food un fenomeno moderno.
L’ostilità di SF al fast food è, in realtà, motivata, come del resto gli stessi suoi fondatori riconoscono, da ragioni “culturali”: precisamente, il fast food stravolgerebbe i “’mores’, i ‘costumi’, l’insieme delle abitudini e dei comportamenti a cui un popolo obbedisce, senza che alcuna legge li abbia stabiliti. Il fast food, con la sua omologazione planetaria, ha fatto piazza pulita di queste tradizioni, di questi ‘mores’, per quel che riguarda l’alimentazione”, e sarebbe di conseguenza, nel senso etimologico del termine, “immorale”. Anche a voler ammettere “(anche se non è così) che i consumatori dai cibi fast traggano lo stesso piacere che altri derivano da un bicchiere di Barolo, o da un desinare in lieta compagnia”, SF obietterebbe comunque: “come si può rinunciare a consuetudini, a ritmi, a strati culturali che fanno la nostra storia, la nostra identità, senza correre rischi di imbarbarimento?” Come si vede, qui non si va al di là di un semplice gioco di parole. L’argomento dell’”immoralità” è contraddittorio: infatti, se ciò che sovverte le consuetudini sociali consolidate è “immorale”, l’immoralità stessa viene ovviamente a cessare nel momento in cui le nuove consuetudini si sono a loro volta consolidate (“immorali”, semmai, sarebbero le vecchie). Inoltre, è errato attribuire alla tradizione popolare italiana abitudini che fino a tempi recentissimi sono state solo di una ristretta cerchia di gente agiata (perché certo parlare di pasti abbondanti, di alimentazione sana e gustosa, e di desinare in lieta compagnia per i contadini dell’Italia anteguerra è niente altro che una fantasia assai disinvolta).
http://www.salmone.org/wp-content/uploads/2009/09/lideologia-di-slow-food.pdf
Veniamo all’oggi ed esaminiamo alcune argomentazioni portate avanti proprio da Barbara Nappini (dall’intervista realizza da Antonio Cianciullo per HuffPost, 12 settembre 2024 ) “Già oggi produciamo cibo per 13 miliardi di persone, ne buttiamo un terzo mentre un miliardo di persone non ne ha abbastanza. C’è qualcosa che non va. Ed è il modello di agricoltura nato nel dopoguerra basato sullo spreco e sull’abbattimento del valore del cibo. È vero che questo modello ha permesso per alcuni decenni un forte aumento di produttività: tra il 1959 e il 1985 le rese agricole sono cresciute del 250%. Ma tutto ciò è avvenuto a fronte di un aumento di input energetici – fertilizzanti chimici, pesticidi, trattori”. Questo è proprio il nodo centrale. A parte che il dato relativo allo spreco è soggetto a parecchie critiche, ma poi, e non è un paradosso, chi spreca di più sono i paesi emergenti, non certo l’Occidente con le sue logistiche ferree e i suoi impianti di refrigerazione. Sprecano di più perché i prodotti si deteriorano dal campo al mercato. Noi se buttiamo roba è perché sbagliamo a fare la spesa, accumuliamo scorte che non riusciamo a smaltire. O sprechiamo perché i prodotti restano in campo, causa attacchi di patogeni che li rendono insalubri: pure quello è spreco. E se non restano in campo e arrivano fino a noi è perché usiamo agrofarmaci (miglioratissimi dal punto di vista dell’impatto ambientale, visto che tantissime molecole usate in passato sono state abolite del tutto). Non sprechiamo perché concimiamo le piante.
Proprio perché non sprechiamo (concimando, curando le piante e migliorandole), produciamo e mangiamo meglio, dalla seconda metà del Novecento che la mortalità infantile si è abbassata e la vita media si è allungata, quindi nella sostanza abbiamo più tempo per mangiare bene nei suddetti ristoranti, stellati e non.
Naturalmente ogni beneficio ha un costo, e, siccome come tutte le cose umane anche l’agricoltura è un compromesso, è opinione diffusa che i costi dell’agricoltura ci sono eccome. Si possono elencare, e dobbiamo lavorare per ridurli il più possibile ma bisogna mantenere i benefici: ergo l’agricoltura moderna difficilmente potrà fare a meno di concimi e agrofarmaci, impianti di irrigazioni, meccanizzazione e soprattutto miglioramento genetico. Tutti questi strumenti andrebbero costantemente migliorati, non eliminati. Slow Food potrebbe chiedere la prova del nove e sarei tentato di appoggiare una loro eventuale proposta estrema. Cioè di chiedere il bando del miglioramento genetico, dei trattori, dei i concimi di sintesi, tutti gli agrofarmaci (anche quelli bio, perché a uccidere il patogeno, non è una bella dichiarazione del rappresentante di Slow Food ma una molecola chimica che necessita di essere prodotta, testata e finanziata da un’multinazionale chimica: anche i prodotti bio vengono dalle odiate multinazionali). Insomma di lasciar fare ai ritmi della natura. Anticipo le conclusioni, nemmeno potremo sederci con i popcorn a vedere il risultato, perché non avremmo popcorn.
E l’agricoltura intensiva? Anche qui, non si capisce bene. Quando si parla di monocultura di mais, tutti contro il mais (che tecnicamente parlando è una pianta che non soffre la stanchezza del terreno, e lo puoi reimpiantare 15/20 anni sullo stesso appezzamento senza subire cali produttivi), ma monocultura sono anche le mele Renette, le mel della Val di Non, anche le pere Romagnole (l’80% delle pericoltura italiana è in Romagna) anche gli aranceti, mandarini e affini della piana di Sibari: sono lì da decenni e rispondono ai dettami dell’agricoltura intensiva. Poi in Italia, vista la conformazione orografica, gioie e dolori della nostra agricoltura, dove volete sia lo spazio per fare agricoltura intensiva? Quante sono le pianure? Oltra alla pianura Padana, Fucino, la piana del Sele, piana di Sibari, un po’ di costa orientale siciliana. E perché dovremmo preferire quella estensiva? Davvero vi piacerebbe fare come nella pampa, piazzare bovini e altri ungulati a ruminare e defecare lungo grandi estensioni di terreno? L’agricoltura intensiva ha un vantaggio, concentrando la produzione su meno terra, libera altra terra. Se la gestiamo per bene, il mondo diventa più bello e verde.
La biodiversità poi: si ignora che è stata costruita anche dalla ricerca genetica. Quella che oggi rimpiangiamo, le cultivar degli anni ’50 sono tutte cultivar ottenute col miglioramento genetico, cioè dai sapiens. Poi non sono perse, sono tutte conservate, all’occasione si possono usare alcuni loro geni, utili alle mutate esigenze ambientali. Perché così come non riteniamo che una Fiat 500 degli anni ’50 sia ancora utilizzabile ora (se non la domenica per farsi un giro) così accade a molte cultivar, col tempo, con le mutate esigenze ambientali, di mercato, di gusto dei consumatori, non vengono più coltivate. Se le riprendiamo dobbiamo anche modificarle, così come abbiamo migliorato la Fiat 500. L’importante è non perderle, non disperdere il seme, insomma sfruttare i loro geni.
No agli ogm è una loro nenia. Invece sono il miglior strumento che abbiamo per essere bio. Per esempio, per modificare quei batteri azoto fissatori e portarli ad associarsi ad altre colture (pensate a che risparmio di azoto, l’ammoniaca è un costoso e inquinante pilastro del mondo moderno), per abbassare la dose di chimica, rafforzare la pianta (così sprechi di meno), regolare meglio i geni che garantiscono qualità, durata del prodotto, resistenze a stress, ecc. Tanto i geni li spostiamo lo stesso, con altre tecniche (ma spesso a casaccio, con più tempo e quando arrivano in campo sono prodotti vecchi). Con le biotecnologie possiamo fare tutte queste cose (con più velocità, più precisione, più sicurezza). Andrebbe solo affrontato il nodo dei brevetti, invece di dire no a tutto, e redigere il decalogo di turno, così da sentirsi puri, duri e giusti, prima di andare a mangiare nei ristoranti con l’insegna (fake): il cibo com’era una volta.
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Grazie a Luca Simonetti e Mauro Pagliai Editore