Quando ancora non c’era il caffè. Per non parlare di ragione a vanvera, possiamo trovare nei dialoghi di Platone un tentativo niente male di riflettere sul metodo epistemologico.
Nel dialogo intitolato Protagora (IV secolo a.C.) facciamo la conoscenza di un incredulo Socrate che non capisce cosa ci trovino i giovani nel sofista Protagora, appena giunto in città. Socrate decide di andare a sentire cosa ha da dire questo filosofo e in effetti rimane incantato quando Protagora apre la bocca e parla. E anche quando la chiude perché ha finito di parlare, beh, anche allora Socrate lo continua a sentire: aveva finito di parlare ma era se come ancora parlasse: un’allucinazione sonora, chiosa Socrate (e Platone attraverso Socrate), con molta ironia, tanto che dopo i complimenti di rito, Socrate chiede a Protagora di dibattere, sì però a una condizione: frasi brevi e concise. Come a dire: dai, poche digressioni e suggestioni, delimitiamo con chiarezza l’oggetto del contendere.
Il dialogo racconta l’annosa e mai risolta battaglia tra doxa ed episteme, che ha occupato tutta la produzione saggistica-narrativa di Platone. Ne ha scritti di dialoghi per cercare di spiegare ai sofisti che non si può dir tutto, anche se è facile dire di tutto, non si può esprimere un’opinione senza ricorrere a un’episteme – tralasciando il fatto che i sofisti un po’ ci guadagnavano con i sofismi. Socrate no, era un perdigiorno (almeno secondo la vulgata e l’aneddotica di Senofonte) nella sostanza chiedeva in giro per poi revisionare le risposte date e non prendeva soldi.
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I dialoghi Platonici– di ardua classificazione cronologica – mettono in scena (anche) personaggi reali che si interrogano lungamente – con brillante ironia e sapienza- sulla possibilità di misurare attraverso un technè ciò che è male e ciò che è bene. Consapevole che siamo nati liberi (gli Dei non interferiscono) e quindi “dobbiamo” essere felici, Platone ha cercato, attraverso la pratica filosofica- qui vista come una sorta di auto pedagogia capace di separare le opinioni, spesso fallaci, dalla vera conoscenza-di rispondere alla seguente domanda (posta da Socrate a Eutifrone nell’omonimo dialogo): è buono perché piace agli Dei, o quello che piace agli Dei è buono? La domanda è l’atto costitutivo della filosofia, perché Platone ci ha convinti che quello che piace agli Dei è buono, dunque – che gli Dei esistano o meno – le strutture normative di questa società saranno del tutto indipendenti dalla volontà degli Dei. Non è vero che tutto è permesso se gli Dei non esistono. Al contrario le norme saranno soggette alla giurisdizione della nostra ragione, quindi dobbiamo impegnarci a rispondere – da soli e con straordinaria fiducia nell’uomo – alle seguenti ulteriori domande: quello che fai, perché lo fai? Le convinzioni che sorreggono il tuo fare sono vere e ben fondate? Se sono vere puoi mostrare anche me dove guardare?
Democrazia e demagogia. Comunque, i Greci, dovendo fare i conti con la nascente e imperfettissima democrazia, si chiesero come sollecitare al meglio la discussione pubblica, indispensabile per produrre deliberazioni politiche, ed evitare fastidiosi inquinamenti dove appunto il sofista o il ricco di turno grazie alla sua arte retorica poteva vincere facile facendo leva sulle emozioni e meno sulle riflessioni ponderate.
Secoli dopo arriva il caffè. La questione di alimentare una buona e stimolante discussione per il bene della società e per validare le nostre idee (nonché stimolarne altre) venne ripresa secoli dopo quando si rafforzò l’abitudine di bere caffè e di frequentare quindi le caffetterie (usanza cominciata nei primi anni del 600 a Londra, pur tra varie controversi).
Quando un uomo d’affari del tempo desiderava conoscere informazioni, valutare prezzi e offerte di un prodotto, parlare di un libro, ascoltare le ultime su una scoperta scientifica, prendere parte a discussioni letterarie, sociologiche e politiche, poteva frequentar le numerose caffetterie del tempo.
Un osservatore dell’epoca così descrisse le caffetterie: sono locali molti spaziosi per una conversazione libera e per leggere in maniera facile ogni genere di notizia stampata, i voti del Parlamento in seduta e altre pubblicazioni che appaiono settimanalmente o senza cadenza periodica.
Tra l’altro queste pubblicazioni che si potevano leggere e commentare nelle caffetterie portavano poi lo spirito del caffè e l’eco delle discussioni dalla città alle campagne, contribuendo così a formare una sorta di rete internet ante litteram: fu così che l’abitudine di bere caffè collegò pubblico e privato, città e campagna e alla fine nel 1751 venne pubblicato il primo volume dell’enciclopedia (il vero pilatro del pensiero illuminista) scritta e redatta da Diderot (e d’Alambert) in un caffè parigino, il Caffè de Régenge che usava come suo ufficio nel quale beveva caffè tutta la giornata, grazie anche (racconta nella sue memorie) ai novi soldi che sua moglie ogni mattina gli dava, sufficienti per pagarsi una giornata di caffè.