È agosto e la temperatura a cui deve bollire la passata di pomodoro è ben oltre il calore sopportabile. Per fortuna le estati in Abruzzo sono miti e la cantina in cui mia nonna ha piazzato imbuti e bacinelle ha sempre qualche grado in meno. Io mi preparo dalla sera prima: ho otto, nove poi tredici anni e la sveglia alle cinque è motivo di adrenalina per tutta la notte. Mi infastidisce che per non svegliarmi troppo presto i ‘grandi’ mi chiamino a operazioni iniziate, mentre io voglio partecipare a tutti i passaggi di questa catena di montaggio familiare. I pomodori vengono lavati, tagliati in due e quattro pezzi. È mia nonna a dirigere questi compiti preliminari, a stabilire pause e obiettivi della produzione. Mi colpisce che ogni anno ci siano scarpe e vestiti conservati unicamente per questo rituale, i pomodori hanno la capacità di sporcare indumenti, braccia e polpacci con tutte le loro parti: semi, bucce, polpa. Mio zio ha un compito centrale: prende pugni di pomodori e li butta energicamente nello spremitore fino a quando la bacinella si riempie di un sugo striato e ancora anemico. A quel punto arrivo io, sono assonnata e non ho fatto colazione, ma chiedo comunque «Da quanto tempo avete iniziato?». So che è il mio momento. Ho un imbuto più stretto di quello usato da mio fratello o mia cugina, ma non mi sento più così piccola: ho il mio posto e conosco le poche regole per far sì che ogni bottiglia abbia il livello di conserva ideale per non scoppiare in cottura. Un rumore sempre più pieno e ovattato accompagna lo scorrere della polpa lungo le pareti di vetro fino al collo della bottiglia. Ripeto con calma il movimento e lo perfeziono a ogni mestolata. Quando vedrò mia nonna alzarsi dallo sgabello di legno vorrà dire che gran parte del lavoro sarà compiuto e che anche quest’anno la salsa per le sue minestre d’inverno sarà assicurata. Ma non è ancora il tempo, lei è chinata a tagliare e io posso continuare a imbottigliare e a sporcare di pomodoro quelli che saranno i miei ricordi.