Sono qui, al laboratorio museo tecnologicamente dell’Olivetti, Ivrea. Davanti a me, sistemate su casse di legno (da imballaggio) ci sono decine di macchine da scrivere. Con un colpo d’occhio, posso verificare l’evoluzione dei materiali: dalla ghisa, all’alluminio, alla plastica. Diversi materiali, diverse procedure. Dalla tecnologia elementare, quella della fusione della ghisa liquida (per gli operai lavoro duro e mani callose), alla pressofusione. Poi con gli anni ’70, ecco le plastiche, l’elettronica, e diciamo così addio, nel giro di pochi anni, alla pressofusione, all’alluminio, alle fonderie. Il progresso e le speranze e l’innovazione, i benefici, i costi, i fallimenti, il tutto esposto e dolcemente illuminato. Sono qui, un po’ nascosto, reduce da un festival letterario (la grande Invasione). Nelle ore passate non ho fatto altro, da scrittore, che discutere con colleghi sulle sorti del pianeta Italia. La percezione della realtà che finora ho elaborato è stata realizzata con strumenti d’indagine fortemente soggettivi.
Non sono mancate opinioni di sapore apocalittico o sentimenti nostalgici, e nessuno di noi è riuscito, in fondo, a sfuggire a concetti come l’autarchia (la filiera corta, il Km 0), l’autoproduzione, l’autoconsumo. Ora però, in questa sala, e nonostante sia circondato da macchine da scrivere, quel mondo letterario mi sembra un po’ alieno. Sì, d’accordo, le scienze umanistiche sono importanti, ma l’uomo è cambiato, cambierà ancora: ci saranno altri materiali che costruiranno i nostri sogni. Ma senza innovazione, noi in Italia, con che materiali lavoreremo? Mi sono nascosto qui in cerca di una storia. Tutti gli scrittori sperano che lo loro storie siano esemplari, io non faccio eccezione. Del resto, l’immaginario ha la sua importanza – chi pensa male, immagina peggio.
Mi piacerebbe capire il perché di tale disfatta. Se il motore del mondo è la conoscenza, la ricerca, l’innovazione, cosa manca o è mancato a noi italiani? Quali sono stati gli errori, le cattive percezioni, le grandi occasioni perse? Perché da quando sono nato (1966), e nonostante grandi cambiamenti culturali, ascolto (e riproduco) la stessa nenia? Grado zero della ricerca, correlazione spinta tra qualità della ricerca e qualità della didattica (entrambe basse), dunque molti dipartimenti e tanti atenei che fanno fatica a raggiungere livelli di ricerca vicini a standard internazionali. Perché se leggo le seguenti frasi faccio fatica a collocarle temporalmente? “Dai noi si procede ancora con sistemi regalateci dalla riforma Gentile che svaluta la tecnica e la scienza in favore della cosiddetta cultura umanistica (…)Da noi si insegnano in forma cartacea materie scientifiche che si possono apprendere solamente eseguendo con le proprie mani operazioni di laboratorio (…) Da noi, nei nostri istituti scientifici, abbiamo dotazioni che bastano appena per pagare la luce e il gas.” Si tratta di un articolo di Buzzati-Traverso, i mansueti professori universitari hanno perduto la pazienza, il Giorno, 31 ottobre 1957. Ecco perché sono qui, sono alla ricerca di una storia tutta italiana cominciata bene e finita male: c’è qualcosa da imparare, perché nonostante questo museo tecnologico racconti il passato, con quel tempo non abbiamo fatti bene i conti.
La storia dunque. Davanti a me (altra stanza) ho una macchina: la programma 101. Detta anche Perrottina. È il primo personal computer – certo pesante, 35,5 kg per 24 byte di memoria e stampante a 30 colonne su carta da 9 cm. Sono nato nel 1966 e se cerco nella memoria la parola computer me ne vengono in mente altre: grandi calcolatori, cervelli elettronici. Poi, se insisto con la madeleineproustiana, rivedo certi film di fantascienza e mi appaiono enormi armadi pieni di fili e luci e rulli di nastro magnetico che girano, e un rumore ossessivo di tabulatrici. Un mondo diverso, da bambino era incerto tra meraviglia e spavento. Che saranno mai quegli armadi bianchi che producevano strane matrici che tecnici in camice bianco, quasi dei sacerdoti officianti, riuscivano (ma solo loro) a decifrare? C’era un amico di famiglia che sembrava saperne sempre una più del diavolo (oggi sarebbe definito un complottista), lui era tranchant sul futuro. C’è – diceva – una sola azienda che gestisce i computer, l’International Business Machines Corporation – detta così appariva minacciosa, mica lo sapevo che era IBM. Questa corporation – diceva sempre l’amico di famiglia –aveva già costruito un computer con il quale gestiva tutto l’apparato missilistico americano (il SAGE). Se un computer controllava i missili, prima o poi qualcuno avrebbe collegato tutti i computer del mondo, allora, quel giorno le macchine ci avrebbero reso schiavi. Poi l’amico di famiglia tornava alle parole crociate. Tutto questo accadeva nei primi anni ’70, ma a Caserta, una città borbonica, in ritardo su tante dinamiche sociologiche. L’amico di famiglia non sapeva che nel già 1962 – morto Adriano Olivetti– Roberto Olivetti aveva affidato il compito di realizzare un computer diverso – piccolo e dunque meno minaccioso – a un gruppo ragazzi, giovanissimi, guidati da Piergiorgio Perotto (Gastone Garziera, Giovanni de Sandre).
Un prodotto da sistemare sulla scrivania, poco costoso e accessibile. In un’intervista a History Channel, il padre della corrente narrativa detta cyberpunk, Bruce Sterling ci chiede di immaginare un momento topico: Perotto e i suoi cercano di convincere i colleghi che un personal computer è importante. Personal cosa? Prima della 101 non c’era niente di paragonabile a un pc. “Eravamo come Michelangelo davanti a un pezzo di marmo, davanti al vuoto, partivamo da zero”, dice de Sandre.
In effetti, come riuscire a costruire un piccolo computer quando il punto di riferimento erano gli inquietanti calcolatori elettronici dell’IBM? Primo ostacolo, condensare tutta la potenza di un grande calcolatore in una scatola piccola come una macchina da scrivere. Al museo/laboratorio di Ivrea c’è anche una vecchia memoria, una di quelle usate dai cervelloni così temuti dall’amico di famiglia. Mi sarebbe piaciuto misurarla, ma a occhio era grande come uno schermo di computer da 20 pollici. Costosa, complessa, difficile da realizzare. Allora, soluzione: la linea magnetostrittiva.
Un filo d’acciaio armonico, una corda da pianoforte, attorno al quale è stata pensata la memoria. “Cambiare il punto di vista e non accettare gli stereotipi rimane la chiave di volta per portare innovazione nel mondo” avrebbe poi detto Federico Faggin (capo progetto dell’INTEL 4004). Ma non bastava. Memoria nuova esigeva linguaggio nuovo: un linguaggio semplice che più semplice non si poteva. Dunque, difficilissimo da realizzare. Due anni di duro lavoro per ottenere un programma facile facile, contenuto in un piccolo libretto, poche pagine. Altra domanda: questo programma (facile facile) dove lo scriviamo? Soluzione: su una scheda magnetica.
Sembra scontato ma all’epoca non lo era, così prendevi la macchina, la poggiavi sulla scrivania, l’accendevi, infilavi la cartolina con il programma e la macchina cominciava a funzionare. Il supporto magnetico – quello che dava la possibilità di archiviare i programmi o spostare i dati da una parte all’altra, il floppy disk insomma – è il punto di gravità della rivoluzione informatica. È fatta! No, perché l’Olivetti – era la primavera del 1964 – entrò in crisi. Bisognava salvarla. Classica cordata. Guidata dalle più importanti lobby industriali, Cuccia di Mediobanca, Valletta della FIAT. Ma c’è un ma.
Sia Valletta sia Cuccia, sia il governo, gli opinion maker italiani assomigliavano al mio amico di famiglia, si mostrano spaventati dall’elettronica o non la capivano. Valletta non aveva dubbi: meglio vendere la divisione – e venderla proprio mentre i computer si stavano espandendo in tutto il mondo. L’Olivetti sarà assorbita nel 1964 dalla General Elettric che naturalmente acquistò tutti i progetti informatici. Tutti, tranne uno: la programma 101. La storia continua. Ma senza un obiettivo condiviso. Roberto Olivetti fu costretto ad abbandonare e il nuovo amministratore delegato non pareva convinto del prodotto 101. Perché? Perché nessuno ce l’aveva. Dunque, invece di pensare ce l’abbiamo noi, sfruttiamolo, si ragionò così: se nessuno l’ha realizzato vuol dire che i mercati non lo richiedono.
Io sono del sud. Noi abbiamo, fondamentalmente, due modi di vivere. O pensiamo di essere i migliori, orgogliosamente baciati dal mare e dal clima – i cattivi sono gli altri che desiderano occupare la nostra arcadia – o pensiamo di non meritarci niente. Lottiamo con questo senso di inadeguatezza, un immaginario da noi stessi creato. Un po’ come Pietro Mennea alla finale dei 200 a Mosca, ottava corsia, settimo fino a 70 metri dall’arrivo e poi protagonista di una rimonta incredibile –recupera, recupera, recupera, commentava allibito Paolo Rosi. Perché sei partito così male, gli chiese il suo allenatore Carlo Vittori. E Mennea: perché sono un ragazzo del sud, ero convinto di non farcela. L’Italia a volte mi sembra un ragazzo del sud, partenze sbagliate e improvvise, ma incredibili rincorse, ma spesso solitarie, inutili: al massimo lasciano una scia, sì magari luminosa, ma non certo una scuola.
La 101 venne esposta alla fiera mondiale (New York 1965), quella dedicata al futuro e a tutte le cose meravigliose che ci sarebbero state domani. Dovunque, tra gli stand, si parlava di computer, ma erano sempre gli stessi grandi inquietanti cervelloni. Il problema non cambiava: dove lo metto? Come lo uso? Ma ecco che in una stanzetta, un po’ nascosta, in sordina, il 25 ottobre 1965 apparve 101. Si poteva toccare, usare e dunque giudicata dalle persone comuni, finalmente.
Per provarla, avevano realizzato un programma semplice, il calcolo dell’orbita di un satellite attorno alla terra. De Sandre e racconta: “L’operatore caricò la cartolina, il programma partì, tre secondi – mi sembrarono un’eternità – e applausi interminabili”. Rimonta alla Menna. La programma 101 diventò la regina della fiera, gli organizzatori si videro costretti, a furor di popolo, a sistemarla al centro. A cosa è collegata? Chiedevano le persone. Dove sono i cavi che portano al calcolatore centrale? Ma come fa a star tutto là dentro? Grande successo, l’Olivetti – nonostante non possieda più una divisione elettronica – deve azionare le rotative: ne produrrà 44 mila unità.
La NASA la userà per calcolare l’allunaggio, la NBC per calcolare i risultati delle elezioni, e in tanti cominceranno a sistemarla sulla scrivania – costava 3500 dollari, il più economico computer dell’IBM arrivava a 100 mila dollari. Sempre Bruce Sterling ricorda una famosa pubblicità dell’epoca, si mostrava un uomo d’affari ai bordi di una piscina, a suo fianco una donna in costume da bagno che utilizzava il programma 101. Quasi una profezia, commenta Sterling. Alla fine degli anni ’60, la HP ne ordinò un centinaio. A distanza di tempo l’HP annuncerà un nuovo prodotto, HP 9100, fortemente ispirata alla 101, ma più veloce e pratica – 900 mila dollari per l’acquisto di brevetto, quello stesso brevetto che anni prima Perotto e De Sandre avevano ceduto all’Olivetti per un dollaro. Nuovi mercati, nuova concorrenza, l’Olivetti cercò di mantenere la sua posizione ma poi la storia è andata come è andata, ci siamo fermati.