La bici abbaia. E in sottofondo, nella strada, l’andamento regolare delle automobili mi porta ad avere le onde di un mare sotto casa. Mi sento un pesce e questo appartamento la boccia che mi contiene. Per anni ho creduto che i pesci rossi buttati nello scarico finissero in mare. Ed era come se i pesci rossi non morissero mai. O meglio, non fossero mai stati vivi. Vittime di una scelta d’arredamento. Fare il soprammobile di questa casa non mi dispiace, galleggiare, essere contenuto e non contenitore, la fine della matrioska. Non molti anni fa una persona mi regalò un pesce rosso, lo chiamai Edgar e non lo guardai più. Non ho ricordi della sua morte né della sua non vita. Il più alto menefreghismo che ho provato fino a oggi è stato per Edgar. Ma lo ricordo, il corpo sgraziato e il suo muoversi incerto. Le bolle d’aria che produceva. Un paio di volte l’ho spiato imitandone i movimenti della bocca. L’animale che abito si muove scomposto. Non sa camminare, si contorce. Ringhia poco e quando lo fa sembra quel cane laggiù che impaurito si fa accarezzare e poi morde. È un animale confuso perché non sa di essere tale. Forse nemmeno Edgar sapeva di essere.