La cucina dei nonni aveva un camino con una cornice color pervinca, smerlata, che risaltava come pizzo prezioso nell’uso quotidiano di quella grande stanza che accoglieva attorno a sé i componenti della famiglia dall’alba, prima di andare nei campi a lavorare, fino alle ultime chiacchiere della sera prima di coricarsi.
Dopo cena si aspettava il sonno raccontando storie antiche e pettegolezzi moderni mentre, per me, era il momento in cui attendevo con trepidazione che i ceppi di legna si trasformassero da tizzoni ardenti in tantissima cenere bollente perché, se la cenere fosse stata quella giusta, per consistenza e calore, avrei sentito la voce del nonno interrompere le chiacchiere per esclamare:
«Nepote, va a piglia’ delle patane nella cista.»
E, appena ricevuto l’ordine, nella sala ci sarebbe stato un rumoreggiare di seggiole spostate e di gridolini di noi bambini intenti a correre verso l’uscio di casa per avventurarci nella cantina buia, accendere la lampadina fioca e scegliere, nella grande cesta di vimini, le patate migliori da portare al nonno.
Che soddisfazione tornare davanti al camino e ammirare la cenere rastrellata come un giardino zen e le nostre mani porgere quelle crude patate bislunghe che sarebbero diventate la leccornia della serata.
Ciascuno di noi conosceva il punto esatto sotto cui era stata seppellita la propria patana e attendeva con impazienza il momento in cui sarebbe tornata a noi cotta, bollente e profumata.
La patana bruciava tra le mani e, per farla raffreddare, la facevamo saltellare da un palmo all’altro mentre si soffiava sopra ridendo; la buccia risultava spesso bruciacchiata, con piccoli fori che lasciavano passare la cenere, avvolgendo la polpa morbida di un gusto unico e profumato.
Un pizzico di sale e la si addentava con gusto assaporando quel sapore semplice e affumicato che avrebbe per sempre riportato alla mia memoria il duro lavoro della terra e la preziosità del tempo che resta oltre la cenere.