Quando i miei nonni venivano a Marano, spesso ci portavano a casa delle mie prozie, le due sorelle di mio nonno, che vivevano a un piano di distanza l’una dall’altra con i rispettivi mariti. Per me era una gioia, perché voleva dire che la zia Lilli avrebbe cacciato fuori il pane. Mi è stato raccontato che, quando avevo poco più di un anno, lei toglieva le croste al pane e le lasciava a me, che me le divoravo contento. Salvo che poi cacciavo via tutto dallo stomaco, i miei non sapevano che fare e mi portarono dal dottore. Non tardò ad arrivare la diagnosi della mia celiachia: all’epoca era un incubo, perché chi non era nutrizionista o scienziato non capiva nemmeno che cosa fosse il glutine. Zia Lilli, invece si attrezzò quasi subito. Cominciavano, in quel periodo in cui la celiachia si diffondeva a macchia d’olio, a circolare i primi panini gluten free surgelati, zia si procurava sempre, insieme ai Kinder, delle rosette da scongelare nel microonde. In due minuti, passati insieme a lei a osservare il panino girare come un vinile sul piattino interno al fornetto, erano pronte ad essere mangiate. Ma prima, il tocco finale: zia Lilli apriva il panino in due e versava sulle due parti un filo d’olio. Il pasto più umile diventava, sotto al mio palato, una sinfonia di bontà, la mollica scompariva tra i miei denti come una nuvola che si dissolve dopo il temporale, mentre l’aspro dell’olio mi pizzicava le papille gustative, facendomi un piacevole solletico. Zia Lilli morì la Vigilia di Natale: arrivò la telefonata alle due del mattino; ormai avevo sedici anni, il panino con l’olio me lo preparavo da tempo da solo. E da allora mi basta versare solo un filo d’olio sul mio pane per ricordare le mie radici.