Il riso in bianco (burro e parmigiano) che mi preparava la mamma quando mi fingevo malata è la cosa più squisita che abbia assaggiato in vita mia. L’ottenevo a prezzo di un inganno di cui ho tentato invano di pentirmi. A sei anni ero una bambina pallida, detestavo la scuola ma non avevo il coraggio di fare capricci. Per evadere dal tedio del tempo pieno mi ero dunque inventata un trucco la cui efficacia era diabolicamente amplificata dal pallore e dalla fama di bambina giudiziosa. Andavo dalla maestra e lamentavo tremendi mal di pancia, orecchi, gola (avevo l’accortezza di variare). Mi spedivano in segreteria e chiamavano la mamma, che accorreva in bicicletta dal lavoro. La vedevo arrivare trafelata e la sua ansia, lì per lì, accendeva in me un rimorso tanto struggente da trasfigurare la bugia. Per qualche minuto non simulavo, soffrivo sul serio. Bianca come un cencio mi facevo portare a casa, dove mi veniva offerto il privilegio dei giorni da malata: infilarmi nel lettone, con le lenzuola pulite e un libro da leggere. Ero immediatamente felice. Ancora più felice quando il riso in bianco arrivava in un piatto fumante, una fogliolina profumata di salvia in cima alla montagnetta candida. Solo che sorridevo troppo: ben presto l’imbroglio fu rivelato da quelle prontissime guarigioni. Nessuno mi credeva più, quando sostenevo di star male; il riso in bianco si trasformò in un miraggio, un sogno impossibile che non mi consolava della noia di dover andare a scuola.