Una villetta immersa nel verde scuro di un tardo pomeriggio d’inverno, di quelle che non si riscaldano facilmente e ti costringono a studiare con il plaid addosso, una cucina di quelle abitabili che non ci sono più e che diventano da subito, per tutti, dove si cucina, si mangia, si studia, si chiacchiera, si piange, si ride, ci si confessa, ci si rifugia, dove si vive.
Ero un undicenne alle prese con la nuova scuola, quella a pagamento e pretenziosa dei medio borghesi, con il libro di geografia aperto in un angolo rubato del tavolo centrale per gran parte occupato, a maggior diritto, dalla pasta “matta” che mamma aveva appena steso (fatta con l’olio della mia famiglia pugliese d’origine), dalle cipolle stufate nel vino di Manduria, dalle olive nere piccole piccole denocciolate dalle dita di mamma nere e votate alla santità culinaria, dalle acciughe, dai capperi, dai pomodorini sfranti e appena ripassati in padella “sennò figurati di che sanno…”
Il mio libro era fitto fitto di parole, era aperto sulla Lombardia.
La mia testa era vuota… persa… tanto che non vidi i gesti rapidi e sapienti dell’assemblaggio… avevo gli occhi puntati alla finestra, impenetrabile per la condensa, e capaci solo di immaginare al di là il buio bagnato, freddo, penetrante, pungente di quel sempre più tardo pomeriggio d’inverno.
Il tempo di tornare lentamente a pensare Milano… Bergamo… Brescia… Como… Cremona… Mantova… Pavia… Sondrio… Varese… ed ecco la mano di mamma davanti ai miei occhi, con quella fetta ancora pigramente fuori fuoco, ma anticipata da quel veloce tiepido soffio di cipolla avvinazzata, arricchita dalla compagnia degli altri ingredienti sgomitanti.
La bocca si apre autonoma… quel complesso, ricco e grasso composto prima si sparge ovunque… poi spara i suoi picchi d’acciuga e cappero qua e là come spilli quando meno te l’aspetti.
Gli occhi si chiudono, e lentamente poi si riaprono… un radioso sorriso verso il viso di mamma, quello sì ora ben a fuoco.