Con la trasformazione della cultura in patrimonio si è sviluppata una logica esclusivista, ovvero il primo obiettivo non è avere qualcosa ma escludere tutti gli altri dall’aver quella cosa. Il gastronazionalismo è un fenomeno multiforme che si verifica tutte le volte che apprezziamo quello che è nostro e disprezziamo quello che non lo è. Capite bene, spiega Michele Antonio Fino (che ha scritto per la casa editrice People, un interessante libro, Gastronazionalismo insieme ad Anna Claudia Cecconi, Andrea Bezzecchi) che nel paese delle Dop e dei prodotti tipici questa tendenza al campanilismo è molto forte e spesso si esce dal folklore e si sfiora lo sciovinismo e spesso il razzismo. Molte tradizioni che vantiamo come nostrane sono state inventate, pensate agli spaghetti al pomodoro, se non fosse per gli arabi e per la scoperta dell’America, di nostro c’è ben poco. Il cibo è un prodotto culturale che nasce non da protezionismo ma dallo scambio di materia e idee, è come l’innovazione che quando funziona è come un ponte che capace di collegare isole lontane.