Abbiamo fatto due chiacchiere con Claudio Cuccia – Responsabile dell’Unità Operativa di Cardiologia, Fondazione Poliambulanza di Brescia – per parlare di infarto e di come con la cultura si può colpire, simbolicamente, il cuore e migliorarne e rafforzarne i battiti
Questo sito parla di innovazione in agricoltura, ma sappiamo che l’agricoltura è un settore primario e ha molte ricadute, soprattutto sulla salute, prima di cibo ce n’era poco, ora troppo, ti volevo chiedere: si vedevo gli effetti, sul cuore, su altro?
Si vedono, eccome: la placca aterosclerotica che pian piano tappezza i nostri vasi arteriosi (le coronarie, per noi cardiologi) è ‘nutrita’ da quanto circola nel sangue, zuccheri e grassi soprattutto.
Cosa succede?
Depositandosi nella placca, la rendono più morbida e più fragile, quindi più facile alla rottura. Anche il sale fa la sua parte: aumentando la pressione all’interno dell’arteria, ne facilita o determina la rottura stessa.
Che succede?
Succede che sulla superficie di una placca rotta o ulcerata (instabile, come la chiamiamo noi cardiologi), si crea un trombo che vorrebbe riparare la falla, un coagulo che nasce a fin di bene, insomma, ma poi cresce a dismisura, andando ben al di là del suo compito riparativo, ostruendo del tutto il vaso. Ecco come nasce l’infarto: un classico esempio di eterogenesi dei fini, dove zuccheri, grassi e sale in eccesso – e la sedentarietà che spesso ne consegue, elemento questo favorente la trombosi – giocano un ruolo fondamentale. Il cibo, quindi, se va al di là dei suoi compiti nutritivi, può far male, alla salute.
A proposito di cuore, in generale, per grandi numeri, come reagisce una persona a un infarto? Cosa prova? Immagino ti prenda un senso di scoramento…
Nessuno ne esce allegro. L’infarto colpisce al cuore, sia nel senso di muscolo, che si ripara peraltro con una certa facilità, sia in quello inteso come centro vitale della persona, più vulnerabile e suscettibile.
Immagino ci sia bisogno d’aiuto?
L’uomo con l’infarto (anche la donna…) ha bisogno di percepire la vicinanza, da parte di tutti, la famiglia, il medico, il proprio ospedale: il cosiddetto ‘supporto sociale percepito’ è un farmaco formidabile, è la pergamena su cui si tracciano le regole del futuro di una persona che si sente ferita. È da qui che si parte, dagli altri che mostrano di volerti bene, di volerti sano, attento a te, meglio di quanto tu non fossi prima. L’infarto, come ogni malattia, altro non dev’essere che una pietra d’inciampo, da cui ripartire, rimpossessandoti di te e del tuo tempo.
Hai scritto un libro molto bello tempo fa, pubblicato per Il Mulino, L’infarto piccola guida per evitarlo… Ci fornisci un po’ di punti cardinali?
Se conosci il tuo nemico, se ne comprendi le insidie e ne scovi i punti deboli, ecco che riesci a “evitarlo o, mal che vada, a sopravvivergli felice” come recita il sottotitolo del libretto. È incredibile il grado di stupidità delle domande che pone la gente, anche gente di cultura, sia chiaro, gente evidentemente spaventata da una malattia che si porta appresso un alone tanto minaccioso.
Cioè, che domande?
Se alle domande “posso fare ancora all’amore” oppure “posso andare in aereo” (sì, sono queste le domande tipo…), tu, che sei il dottore, rispondi “basta che non si lanci dal lampadario” oppure “L’importante è che non sia lei a pilotarlo”, ecco che la persona tira un respiro di sollievo: anche dalle parti delle coronarie sarà l’ironia a salvare il mondo. La soluzione per il paziente che ‘soffre’ di cuore è di diventare consapevole del problema, conoscerne i precetti base, e non ambire ad una cattedra di cardiologia ad Harvard (l’web offre manuali di ogni genere, buoni solo a confondere il navigante).
Il reparto che tu dirigi è molto particolare, il padiglione sembra una galleria d’arte, tu stesso oltre al libro succitato ne hai scritto altri dove ragioni sul rapporto malattia/narrativa/arte. Si può colpire al cuore? In senso buono.
Le due culture devono camminare insieme, la strategia che si adotta per affrontare la malattia, quale essa sia, non può che viaggiare su un binario fatto di tecnica e di umanesimo, di “virtute e canoscenza”. Il medico, a dirla sempre con il Sommo, si deve esprimere con “una parola ornata”, che è la parola fatta di ‘dottrina ed eloquentia’: non basta la sola conoscenza tecnica, fosse così (e spesso lo è), la tecnica diventerà un fine e non un mezzo, se lasciata sola, se non guidata dall’intelligenza e dal sapere ampio dell’uomo che l’ha inventata, la tecnica ti fa sbandare nell’inappropriatezza.
Quindi?
Quindi, la tecnica dev’essere sorvegliata, e sono le lettere e l’arte a farlo: un medico colto non può che essere un bravo medico, lo stolto, invece, farà procedure, farà interventi, magari li farà bene, ma non curerà. Le scienze umanistiche non sono, come dicono alcuni, scienze inutili, e soprattutto oggi, dove la forma rischia di farla in barba alla sostanza, la cultura classica e il pensiero critico che ne è generato devono guidare la mano di chi pilota un’auto troppo veloce. Chiedete al vostro dottore qual è l’ultimo libro di narrativa che ha letto: se lo troverete impacciato, cambiatelo, il dottore…
Come sapere se si va nella giusta direzione, dunque? Come valutare il sistema?
Qualsiasi soluzione deve transitare dalla misura delle cose, altrimenti entriamo nel regno dell’opinabile senza riuscire a cogliere il rischio di inappropriatezza con cui dobbiamo fare i conti. So che i medici non amano essere misurati, ma questa è la strada, una strada da percorrere con parametri di misurazione ben fatti, da gente competente e seria, medici, infermieri, decisori pubblici. L’operato dei medici non può essere valutato solo in termini numerici, in termini di procedure fatte: è la “misura del percorso” che dobbiamo imparare a cogliere. Non vorrei si dimenticasse che il lemma “medicina” ha una derivazione lontana, nasce da una radice comune a molte lingue e significa intendere, conoscere, sapere, misurare: ecco l’idea della “misura”, una parola che ha una doppia accezione, quella tecnica, fatta di cifre, e quella umanistica, che indica il garbo, la gentilezza. Ecco, misuriamo ciò che produciamo in termini di salute, e facciamolo col garbo delle persone sagge.