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Attenzione ai colpi di scure: ovvero, trattiamo bene gli alberi

da Antonio Pascale
29/07/2022
in Lezioni Private
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Due chiacchiere con l’antropologo Fiorenzo Caterini, autore del saggio “Colpi di Scure e Sensi di Colpa” (Carlo Delfino Editore), sul disboscamento della Sardegna dell’800, escursionista e amante degli sport all’aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon).

Cominciamo dal principio, in Sardegna che specie boschive ci sono e qual è il loro stato di salute?

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“Di solito questa domanda giunge alla fine, dopo il racconto del drammatico disboscamento che ha investito la Sardegna nell’800. Un disboscamento che, a differenza del resto d’Italia, è stato di tipo puramente speculativo e traumatico, per i modi e i tempi con cui è avvenuto.

Un po’ di numeri?

Oggi, secondo le statistiche, in particolare i dati ISTAT, la Sardegna ha il più alto indice di territorio boscoso d’Italia, con un milione e 200 mila ettari. Si tratta, tuttavia, di una classificazione che considera “bosco”, anche la vegetazione degradata e involuta, derivata, in realtà, da un fatto sociale piuttosto negativo, che ha colpito negli ultimi decenni tutta l’Italia e l’Europa, ovvero l’abbandono dell’agricoltura. Grandi distese di macchia diradata sono ricresciute su pascoli e terreni abbandonati.

Quindi il bosco vero e proprio?

Il bosco vero e proprio si assesta su un dato comunque confortante, intorno al mezzo milione di ettari, il che dimostra la vocazione boschiva dell’isola e smentisce quel luogo comune, sorto per ragioni culturali, di un’isola arida e senza vocazione boschiva. Si tratta di foresta mediterranea e macchia evoluta, con predominanza di piante sempreverdi, in particolare il leccio, e di altre essenze tipiche dell’area mediterranea.

E nelle zone montane?

Nelle zone montane più fresche la roverella, il castagno, il frassino si affiancano al leccio, e nelle zone più difficili, nelle aree cacuminali e lungo le coste, sono i vari tipi di ginepro a caratterizzare il paesaggio. Uno pseudoclimax particolare, in Sardegna, è quello della sughera, una quercia che si difende per sua natura dagli incendi, endemici nelle zone mediterranee, e che ha alimentato una florida industria per la lavorazione della materia prima che si produce dalla sua corteccia, il sughero.

Qualche altra pianta?

Altra pianta caratterizzante l’isola è l’olivastro, che presenta in varie località piante vetuste di mirabile bellezza, come quella di Luras che, recenti studi, la datano a circa 4000 anni di vita. Qua e là resistono aree dove vari tipi di pino (domestico, marittimo, d’aleppo) sono sopravvissuti; conifere peraltro utilizzate, fin dai tempi antichi, per la bonifica delle aree sabbiose costiere. Occorre dire che a partire soprattutto dal dopoguerra, lo Stato prima e la Regione poi, hanno sparso per l’isola numerosi cantieri forestali, acquisendo in proprietà o in prestito terreni pubblici e privati. Una vera industria dalla grande portata sociale, con alcune migliaia di dipendenti, che ora la “modernità” sta ridimensionando parecchio.

E i boschi che c’erano?

Tuttavia, i boschi impiantati in quei cantieri forestali, che ancora gestiscono circa duecentomila ettari di bosco, sono mirabili per caratteristiche naturalistiche e per bellezza. Anche se è consueta ormai in Sardegna una critica, in parte accettabile, per un utilizzo esagerato di specie esotiche, cosa che faceva parte della visione silvicolturale degli anni passati.

Ok, raccontaci un po’, a brevi linee, cosa è successo nell’Ottocento in Sardegna, perché è una storia non molto conosciuta.

La Sardegna arriva all’appuntamento con la modernità nell’800 dopo quattro secoli di feudalesimo iberico, che aveva cancellato l’avanguardia politica e sociale degli antichi giudicati sardi. Durante quel periodo, tuttavia, non era venuta meno quell’economia di sussistenza, basata su una gestione comunitaria delle terre, che aveva nel bosco una delle sue componenti fondamentali. Come gli antropologi sanno, le popolazioni tradizionali hanno con il bosco una relazione funzionale, basata sulla consapevolezza diretta: se tagli il bosco, poi ti mancherà la legna per gli attrezzi, gli infissi, il caminetto, persino per cuocere il pane, oltre alla riserva di alimentazione che il bosco ha per uomini e bestiame; per non parlare della percezione che le popolazioni tradizionali hanno sull’importanza del bosco per l’agricoltura, per l’alimentazione delle fonti idriche e la regimazione delle acque. A questa visione funzionale, le popolazioni tradizionali affiancano una considerazione sacrale e simbolica del bosco, che è un organismo vivo, luogo dove albergano gli spiriti degli antenati e le creature reali e immaginarie dell’inconscio e della fantasia.

Poi che è successo?

Ora, però, l’economia di mercato scendeva dall’Europa industrializzata circondando l’isola, recando una visione privatistica, di cui i Savoia, culturalmente inseriti nel contesto europeo, ne erano portatori. Avviarono così la “stagione delle riforme” che però, intervenendo in una società isolana priva di una borghesia in grado di raccogliere la sfida, si trasformò in una mera speculazione.

Ci sono stati episodi di rottura, diciamo così, che hanno aperto la strada al diboscamento?

Il preludio al disboscamento fu la nascita delle chiusure con i muretti a secco del famigerato Editto delle Chiudende del 1820. La privatizzazione delle terre, stravolgendo l’antico sistema comunitario, provocò una sequenza di abusi e di ingiustizie, provocando un trauma insanabile nel popolo, al punto che ancora oggi vi sono testi poetici e letterari che ricordano quella vicenda e la rivolta, soppressa nel sangue, che ne conseguì.

“In fondo al bosco si odono ininterrotti colpi di scure, ripetuti dall’eco, e pare che tutta le foresta ne tremi”. Scrisse in una sua novella Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura del 1926.

Cosa successe ai boschi?

I boschi furono prima demanializzati e poi venduti dallo stato piemontese ai privati, spesso speculatori senza scrupoli. Il sistema di sfruttamento dei boschi sardi proseguì ininterrotto fino alla fine del secolo, sotto l’egida del nuovo Stato italiano. In quegli anni si levarono le proteste delle menti più sensibili, tra cui i deputati Asproni e Tuveri che condussero le loro battaglie in Parlamento. Lo stesso La Marmora, il generale piemontese nonché grande geografo e scienziato, di stanza in Sardegna, denunciò l’ignobile speculazione. Scrisse il membro della Reale Accademia Agraria di Cagliari Siotto Pintor, nel 1836: “persistendo nell’attuale sistema di distruzione, correranno pochi anni ancora, e poi resterà soltanto la dolorosa memoria delle nostre dense boscaglie”. Tutto ciò, però, a nulla valse.

Mi dai qualche dato?

Le statistiche sul disboscamento dell’800 sono spietate, concordanti ed inequivocabili. La Sardegna entra nell’800 ricca di boschi, con oltre 500 mila ettari di superficie forestale, e ne esce, alla fine del secolo, ridotta a meno di 100 mila ettari. Ma la distruzione delle foreste sarde deriva solo in parte dal taglio, considerando la capacità di rigenerazione di un ambiente a vocazione boschiva, ma soprattutto dal mutamento della destinazione d’uso dei terreni, ormai per la maggior parte privatizzati. Cambiando l’ecologia, e il regime fondiario dei terreni, l’economia ha trovato forme nuove per sostenersi. Inizialmente è il carbone vegetale a creare una economia “secondaria” di rapina, ricavato dalla macchia che era ricresciuta dal taglio. Infine, è la monocultura ovina a cancellare definitivamente quell’economia di sussistenza che era sì povera, ma variegata. Crolla, in quegli anni, il florido patrimonio suino, che si nutriva del ghiandatico dei boschi. Infatti, le lande desolate disboscate erano vocate al pascolo ovino estensivo, che rispondeva alla richiesta di lavorati del latte che proveniva in particolare dall’emigrazione italiana in America. Nasce così l’epopea del “pecorino romano”, che trova nella Sardegna la quasi totalità della materia prima.

Due domande ancora. La prima: l’economia di sussistenza sembra un po’ la panacea dei problemi della contemporaneità, c’era una volta un paese felice…ecco questa economica non è un sistema statico, né paradisiaco, è giusto guardare la storia dell’umanità come la rottura di un equilibrio?  Prima era bello, buono e giusto poi no? C’è un modo, secondo te, carbone a parte- che meno se ne usa meglio è- di usare la foresta in modo sostenibile? C’è un modo per rimboscare la Sardegna? Su quali leve si dovrebbe agire?

Idealizzare il “piccolo mondo antico”, allo stesso modo delle “magnifiche sorti e progressive”, sono tentazioni molto umane. Nel mio libro critico, in realtà, quel passaggio, che era inevitabile in una regione europea, tra il mondo antico e il mondo moderno. La Sardegna veniva da quattro secoli di immobile feudalesimo iberico, e la fase di transizione verso la modernità si è rivelata più uno sfruttamento di tipo coloniale che una stagione delle riforme. Questa è la storia d’Italia, niente di nuovo, verrebbe da dire, conoscendo il processo di italianizzazione che è partito dal Nord egemone. In Sardegna, in aggiunta, vi è la vicenda del passaggio di consegne reali, dal Regno Sardo a quello d’Italia, e forse ci si era illusi, anche con la “fusione perfetta” tra Sardegna e Piemonte, che nella politica reale albergasse qualche sentimento di riconoscenza.

Senti e sul piantare alberi?

Oggi la retorica poetica del “piantare alberi” è diventata molto diffusa. In realtà, in Sardegna (ma anche in Italia e in molte parti d’Europa), con l’abbandono dell’agricoltura si assiste all’emergere di una distesa di vegetazione incolta, una sorta di “terzo paesaggio”, che non è bosco e neppure terreno agricolo, che andrebbe gestito e riportato nei binari naturalistici e produttivi del bosco o della moderna agricoltura. Lo spopolamento delle zone interne è diventato un problema molto sentito, tuttavia non si è ancora compreso, secondo me, che i paesi altro non sono che il loro territorio (la città ha altrove la sua impronta ecologica), che allo stato attuale versa in stato di parziale abbandono.

Ma la Regione ha trovato qualche soluzione?

La Regione sta incominciando a sperimentare, nei boschi di propria gestione, attività produttive come apicoltura, legnatico, orti biologici, impianto di specie produttive e da frutto. Penso che sia la strada migliore per trovare il giusto equilibrio tra esigenze naturalistiche, paesaggistiche e ambientali e quelle produttive.

Ultima: come si fa a non far bruciare un bosco? Possibile che non abbiamo inventato un sistema di prevenzione?

Come sopra: un territorio gestito, che sia bosco d’alto fusto, che con molta fatica soccombe alle fiamme, o terreni agricoli, magari irrigati, sono una barriera protettiva nei confronti delle fiamme. Ma è chiaro che ci troviamo di fronte a trasformazioni sociali di lungo periodo che, ancora non si sa come, andrebbero invertite. A questo si aggiungono i cambiamenti climatici, che hanno portato l’intero pianeta a bruciare, e persino, in Occidente e in particolare in Sardegna, la revisione della spesa con conseguente restrizione di servizi pubblici come la protezione civile. 

Ma c’è una varietà nel problema incendi?

Il fenomeno degli incendi, poi, varia troppo da regione a regione: un incendio siberiano, o svedese, o australiano, o californiano ha caratteristiche troppo diverse da un incendio sardo, o francese, o siciliano, o africano. Per cui gli scambi scientifici e di esperienze diverse sono molto interlocutori, nonostante i convegni e gli incontri che pure si fanno. In Sardegna, peraltro, negli anni ’90, il modello regionale antincendio, basato sulla tempestività di avvistamento e intervento (con mezzi piccoli dislocati nel territorio) aveva dato eccellenti risposte. 

Ma oggi?

Ma oggi la situazione sembra in peggioramento, a causa delle citate cause: cambiamenti climatici, spopolamento del territorio, revisione della spesa. Oggi, mancando la possibilità di spesa, si discute molto di prevenzione: fasce parafuoco, fuoco prescritto, riapertura delle vecchie strade di campagna, pulizia dei terreni incolti. Ma anch’essa, alla fine, ha necessità di risorse non indifferenti. Si discute anche di cultura, di educazione, ma anche qui emergono, spesso, delle narrazioni giornalistiche da “romanzo criminale” che poi non vanno nella direzione di educare il cittadino alla dovuta attenzione. Temo che non vi siano ricette miracolose, per questo problema atavico che accompagna l’uomo da sempre, ma solo un faticoso e costante processo di lotta.

Per finire dimmi la tua…

 L’unica cosa che mi sento di suggerire, prendendo spunto proprio dal modello sardo, è di insistere sull’avvistamento dall’alto e sulla tempestività dell’intervento dal basso. Perché l’incendio ha caratteristiche matematiche esponenziali: un banale focolaio, se trascurato, può trasformarsi in un evento catastrofico che, oltre certi limiti, non può più essere contenuto. Meglio affrontarlo prima.

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