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Roberto Brazzale fondatore della Brazzale S.p.a ragiona spesso sul concetto di made in Italy. Non esiste, sostiene. Primo perché non esiste in purezza, appunto, siamo soggetti a una ragnatela, per cui anche un piccolo artigiano che lavora con le sue mani la pelle magari ricavata da una vacca uccisa a pochi chilometri di distanza, e dunque crede o cerca di gestire la propria sovranità,  poi basta che arriva al lavoro in Golf e finisce la purezza del made in Italy: “oggi si definisce made in Italy un formaggio Dop, fatto a Brescia ma con latte proveniente da vacche acquistate a suo tempo in Baviera, nutrite con soia brasiliana, mais americano ed erba medica  disidrata spagnola. Manze inseminata con seme di toro Canadese, munte in sale di mungitura con tecnologia tedesca e curate da bravi bergamini pakistani o albanesi. Latte poi trasportato da autista bosniaco, cagliato da un casaro moldavo, poi conservato in un magazzino da un bangladese, il tutto poi ottenuto su un podere concimato con concimi canadesi o tedeschi, distribuito con macchine americane che a loro volte sono il risultato di assemblaggi di pezzi diversi”. Insomma, siccome i cicli produttivi si sono espansi come una fisarmonica, pensare di affidarsi solo alle note italiane significa (per mancanza di materie prime) condannare il made in Italy al collasso: facciamo in modo, dunque, che l’idea di sovranità, filiera corta, sostenibilità, qualità, non ci facciano mai perdere la dote dell’empatia, il gusto del cibo e la cultura che ci lega ad altre persone con diversa cultura ma con la stessa voglia di partecipare al mondo, nonché di migliorarlo.

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