Mio padre lavorava all’Ispettorato Agrario di Caserta, e di tanto in tanto mi ci portava. Una volta arrivati, mi lasciava con un suo collega, un etmo/patologo che aveva allestito una sala, nella parte finale degli uffici, là non andava mai nessuno. Che ci vuoi fa, quello è un po’ filosofo, dicevano gli altri colleghi, parla sempre. Forse per questo l’avevano rinchiuso in quella stanza.
Comunque, me la ricordo, sì buia, tuttavia affascinante, quasi magica, un parco divertimenti: c’erano insetti sotto vetro che facevano schifo, ma che volevi portarti a casa per mostrarli alle ragazzine e farle impaurire e strane cose filamentose, funghi, diceva il collega di mio padre. Un giorno mi fece vedere un ramo con delle foglie ingiallite: un platano, disse. Facile da riconoscere, perché le foglie hanno cinque lobi e assomigliano a una mano aperta. Poi mi fece, appunto, aprire la mano e non so, forse la memoria mi inganna, eppure la mia mano non combaciava perfettamente con la foglia: la foglia era più grande. Dovevo essere molto piccolo, 5 anni.
Fatto sta che quando tolsi la mano dalla foglia, il collega di mio padre disse che i platani si stavano ammalando, mica da adesso, da tanto tempo, soprattutto quelli che delimitavano il viale di ingresso, quello che andava verso la Reggia: è un guaio se non troviamo la medicina.
Quello che causa il cancro colorato dei platani è un fungo microscopico, un ascomicete: Ceratocystis Platani. Cancro perché il fungo genera necrosi e degenerazione della corteccia e legno. Colorato perché, staccando la corteccia dalle aree interessante dalla malattia, si notano macchie e striature di colore bluastro.
Il fungo, sconosciuto in Europa (ma studiato negli Stati Uniti a partire dal 1925), probabilmente è arrivato in Italia dopo lo sbarco americano, magari con qualche cassa per munizioni, di quelle fatte con legno, infetto, appunto. Ipotesi che vede, tra l’altro, la mia città d’origine, Caserta, come uno dei punti di potenziale innesto (oltre a Marsiglia e Barcellona).
Fu qui infatti che furono notati i primi casi, poi, dopo, successivamente, a Monza, dove la fitopatia fu osservata nel parco cittadino (anche lì, stessa storia, aveva stazionato un distaccamento dell’esercito americano).
Dopo 25 anni, e cioè negli anni ’70, i primi casi acclarati in Italia. Troppo tempo? Non è detto, probabilmente si è diffuso lentamente.
Come si propaga? Per ferite, piccole e grandi. Per ferite si intendono quelle causate da insetti, grandine, roditori, fulmini e lesioni varie prodotte da noi umani. Metti anche l’abitudine di potare con la motosega e niente, facile che la segatura infetta contamini le piante vicine.
Fatto sta che abbiamo dovuto abbattere platani plurisecolari e ora i nostri viali alberati (e pure i parchi cittadini) mostrano buchi, poco gradevoli. Salvare i platani significa salvare l’ombra e l’ombra è utile, benedice gli umani, offre riparo e predispone alla conversazione.
Se non conversiamo, se non proviamo a capirci, difficilmente riusciamo a collaborare. All’ombra del platano torniamo bambini, perché le nostre dita sono contenute nel profilo della foglia, e allora ci sentiamo meno prepotenti, più fragili: ditemi, quale migliore occasione per rinfrescarsi e giocare e darsi la mano, parlare senza quelle inutili e poco proficue e accalorate discussioni tipiche degli adulti che non si meravigliano più di niente, concentrati come sono a difendere il proprio recinto?