Non ricordo esattamente quando accadde la prima volta, né perché, ma ero un bambino pronto per andare a scuola con il grembiule blu e con il fiocco bianco, la mattina in cui mamma decise di rinforzare il caffellatte in cui affondavo a tre a tre i biscotti Bucaneve con un ovetto sbattuto. Mi sembrava un passaggio decisivo all’età adulta, quella che richiede una quantità di energie fisiche e intellettuali, psicologiche ed emotive che solo l’onda d’urto dell’uovo sbattuto vigorosamente nella tazza insieme ad una robusta dose di zucchero bianco avrebbe potuto reggere. Ed infatti ressi. Alle umiliazioni della maestra che mi prendeva in giro per la mia inadeguata maschera di carnevale, alle provocazioni dei ragazzi più grandi che ci cacciavano dal cortile per giocare a pallone al posto nostro, ai continui rifiuti della bambina bionda del terzo piano che non voleva saperne del mio disperato amore per lei. Poi un giorno mamma così come aveva iniziato, misteriosamente decise di non farmi più l’ovetto sbattuto. E io non mi laureai.