La domenica mattina esisteva un procedimento che mi rendeva felice subito dopo aver aperto gli occhi, la preparazione delle tagliatelle con mia nonna. Erano gli anni della scuola elementare, anni in cui prendevo la sedia di legno più alta, parcheggiata in un angolo della cucina, per accostarla al tavolo e restare a guardare l’avvenire di un rito. L’incontro delle uova con la farina, il movimento delle mani per levigare l’impasto che doveva riposare, lì come una palla inerte. Poi mia nonna usciva di scena, si armava, tornava con un mattarello in legno senza manici e cominciava a stendere la pasta fino alla completa occupazione di quella spianatoia secolare. Non ho mai capito come riuscisse a fare quel gesto di rivoluzione mentre lasciava che la pasta si staccasse dal mattarello, era un movimento veloce, non ammetteva nessun dubbio, infallibile, l’ho fissata per anni senza scovare il segreto. Quella enorme ruota di pasta fresca, uniforme e fina restava ad asciugare. Nei suoi ritorni nonna era sempre più armata, per l’ultima fase occorreva un coltello, utilizzava sempre lo stesso, credo da generazioni, lama lunga e senza punta che a me sembrava addomesticato, si mostrava autonomo in quell’andirivieni, scandito dal ritmo interiore di una donna. Solo a questo punto arrivavo io a scombinare quell’ordine di tagliatelle appena nate, con le mani rompevo le linee e sopra quel piano infarinato le distribuivo ovunque, e mentre le dividevo qualcuna finiva dentro la mia bocca perché amavo mangiarle prima e dopo la cottura. Intanto il profumo del sugo sul fuoco aveva invaso ogni spazio della casa mentre l’acqua era in ebollizione. La mia infanzia è anche un piatto di tagliatelle che ancora oggi preparo in casa perché sono rimaste nella mia cultura, grazie ad un tempo andato ma che non sento mai troppo lontano.