Chi è figlio di tabagisti lo sa, tutte le suggestioni sensoriali dell’infanzia sanno di sigaretta. Se penso a un sapore dell’infanzia mi risale nelle narici l’odore della nicotina mischiato a quello di un bagnoschiuma alla vaniglia impastato a un leggero sudore nei pomeriggi di maggio quando mamma, incinta al nono mese, si stendeva sul letto e io mi arrampicavo sulla pancia e sprofondavo con il naso nel suo collo.
A seguire, gli gnocchi. A tutti i bambini piacciono gli gnocchi, altrimenti per quale altra ragione staremmo ancora qua a tramandare il proverbio. A me, come certi melomani che credono che il proprio amore per l’opera superi quello di chiunque altro, piacevano di più. La domenica mattina appena sveglia con la bottiglia di latte in una mano – ero molto gelosa di mio fratello minore e per un certo periodo ho provato a fargli concorrenza fingendomi più piccola di quanto fossi, e quindi la bottiglia di latte a circa quattro anni – affondavo l’altra nella ciotola con le patate passate messe a raffreddare. Le dita restavano farinose per ore, pur leccandole, lavandole, e passandole poi su qualsiasi superficie di casa. Gli gnocchi mi piacevano a tal punto che mentre mamma li cavava con il dito e la forchetta – cosa che io ho poi imparato a fare di lì a qualche anno – ne rubavo qualcuno e lo mangiavo crudo. Ovviamente mi faceva schifo ma questo non mi ha mai impedito di rimangiarne uno anche la volta successiva e quella dopo ancora, all’infinito. A chi capita di pranzare in mia compagnia dice che quando mi piace un piatto smetto di parlare. In effetti, sembra fosse una delle soluzioni adottate dai miei genitori quella di zittirmi dandomi da mangiare, soprattutto gli gnocchi.
Ed è ancora questa la strada per portarmi alla resa.