Il profumo della crostata di crema e ricotta annunciava il giorno di festa. Dalla cucina filtrava l’aroma della buccia di limone e la fragranza dello zucchero a velo. Bisognava aspettare. La Tata Maria si presentava sorridendo nel suo grembiule bianco e azzurro quando il dolce era pronto: né freddo né caldo bensì tiepido. Noi bambini ci gettavamo sul piatto sotto lo sguardo gelido della nonna: “Piano, usate la forchetta non siate dei selvaggi!”. Ed era godimento puro: la crosta friabile l’impasto denso, appagante, la fetta da sbocconcellare a occhi chiusi perché non ce ne sarebbe stata un’altra.
Poi arrivò la crisi, Maria lasciò la casa al Corso portando con sé il suo segreto: non ci fu nulla da fare. Provammo le migliori pasticcerie di Roma: la crosta era troppo dura oppure molle, l’impasto, quel cocktail superbo fra crema e ricotta, una pallida imitazione delle nostre colazioni. Da giovanotto un giorno presi la mia Dyane e andai a trovare Maria a Civita Castellana, la cittadina dove si era riturata. “Aspetta”, mi disse facendomi festa e correndo in cucina. E così assaporai per l’ultima volta il profumo e il sapore della mia madeleine.